Michela Lucenti, GIOCASTA, Balletto Civile, ph Andrea Macchia
L’inizio li coglie dormienti nel letto a terra, dove sono giaciuti, mentre lui, Edipo, furtivamente fugge. Tutto è rosso. Le lenzuola, i pochi oggetti sparsi – tra cui un tavolinetto con sopra un telefono dal lungo, attorcigliato filo, e una lampada; una giostra-giocattolo con dei cavallucci, e la veste indossata dalla protagonista. È il colore del fuoco, della passione, dell’amore. Della rabbia, della forza, del sangue. Della vita che pulsa. Batte forte nel cuore e nel corpo di Giocasta, la madre e moglie di Edipo, pure genitrice dei suoi figli Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene. È una Giocasta nostra contemporanea quella che la coreografa e danzatrice Michela Lucenti mette in scena col suo teatrodanza, assumendo in sé la frase del poeta William Blake (riportata nelle note di sala): «Tutte le divinità dimorano nel petto umano», per esplorare la dualità dell’anima.
Con lo sguardo femminile sull’orrore della guerra, questa di Lucenti è una Giocasta solitaria, non più mito lontano, arcaico, figura marginale nella tradizione sofoclea, ma donna risoluta, combattiva, nella versione, invece, di Euripide. Riprendendo, infatti, quella descritta in Le Fenicie, dove l’autore greco la colloca al centro della tragedia – impegnata nel vano tentativo di far raggiungere ad un accordo i due figli, fratelli e nemici in lotta, e impedire la guerra -, Lucenti ne fa una donna ferita ma coraggiosa pur condannata al dolore e incapace di mettere pace.
Attraverso una drammaturgia fisica innestata dentro una moderna e poetica scrittura testuale del mito, Lucenti (con l’apporto di Maurizio Camilli e lo sguardo di Emanuela Serra) riscrive le tappe del destino della regina di Tebe: la predizione dell’oracolo a cui il marito Laio cercò di sfuggire; la morte per mano del giovane Edipo che la ebbe poi in moglie, la scoperta dell’incestuoso legame, e l’eredità funesta ricevuta come dono maledetto dagli dei. Lo dice con quel suo corpo vibrante, scosso, tremulo, energico; con le mani, le braccia, il volto e i capelli; con un canto dolce e pietoso; e con le parole: quelle sparse nell’etere mentre danza riempiendo ogni vuoto interiore e scenico; e quelle che cercano un’eco dall’altro capo del telefono al cui squillo ella risponde più volte modellando tono e posture riprese da La voce umana di Jean Cocteau.
È un fiume di parole d’amore il suo monologo – «…Ti ho chiamato mio sposo quando ancora eri straniero e ora che è troppo tardi ti chiamo figlio. Ma era ed è amore» -, un arrendersi al destino dove «Era già tutto scritto», ripete a se stessa e a un Edipo assente, di cui ode solo il respiro. Egli comparirà relegato dietro un grigio velo trasparente, accecato, abbandonato a sé stesso in una latrina, arreso alle sue responsabilità, incapace di agire. Eroe fantasmatico ma reale nel suo palesarsi con il canto e i suoni distorti della chitarra, ha il volto e la voce del giovane cantautore e performer Thybaud Monterisi.
Sulle note delle sue songs, tra frammenti di voci lontane e giochi di infanti – un carrello con quattro bambolotti sono i figli richiamati in vita da un girotondo -, s’innesta una coreografia evocatrice di ricordi, di premonizioni, di paure, di resistenza, di tentativi di fuga – «…Andiamo via io te e i bambini in un posto dove non ci conosce nessuno. …Ci sono io, risolvo tutto, lo cambio io il destino!» -, di arrendevolezza. Quella a una sorte segnata dalla tragica profezia che la vede infine suicida con una spada sul campo di battaglia, qui tradotta in scena nella suggestiva sequenza del vasto tulle che la risucchia.
Il presente distorto dentro cui tutto è avvenuto e che Lucenti ci consegna al nostro, ha il segno viscerale di una ferita universale e di una tensione senza tempo dettata sempre e solo dall’amore.
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