TÉMOIN, ph Le Kabuki
Siamo davanti a uno spettacolo, Témoin, che segna un diverso approccio nell’ambito della urban dance contemporanea. Non fa il verso ai cliché del genere, non ricalca stilemi di esibita prestazione, di tecnica stupefacente, di abilità da confezionare. Costruito con un pensiero drammaturgico, un’idea forte di socialità, di vera comunità multiculturale e multietnica, Témoin del coreografo Saïdo Lehlouh, contiene tutto quel ricco e variegato mondo estetico della street dance in tutte le sue declinazioni – dall’hip-hop all’electro, dal break al waacking al krump al freestyle -, ma amalgamato mirabilmente quale espressione di più ampio respiro dove l’uno confluisce nell’altro, lo contiene, lo sprona, lo fa vivere.
Non c’è emulazione, rivalità, antagonismo nei venti straordinari interpreti per la maggior parte autodidatti, e di diverse età, che compongono il Collectif Fair-E, Centre Chorégraphique National (CCN) di Rennes e della Bretagna guidato da Lehlouh. Sono tante personalità che non hanno bisogno di affermarsi singolarmente ma di essere insieme un blocco sfaccettato, dove ciascuno, nella propria individualità umana e stilistica, è espressione dell’altro. Questo è tangibile nella costruzione coreografica e registica sviluppata da Lehlouh, coreografo della scena b-boying parigina degli anni Novanta, portatore di una visione nuova che ha travalicato la breakdance e l’hip-hop per la capacità di fondere linguaggi diversi.
L’inizio di Témoin (al festival Torinodanza) è un’atmosfera rarefatta. Una scena nebbiosa, un canto nell’etere, un gruppo sparso, fermo a guardare l’assolo di uno di loro. Poi, mescolandosi nel mezzo, egli fa sì che lentamente tutti, a turno, iniziano a muoversi. Si forma una coppia appena illuminata dall’alto, con l’uomo che gesticola, passa da un movimento più terreno ad un altro più aereo con le braccia che sembrano aprire porte. Avanza in più direzioni mentre altri lo seguono. La scena è quasi sempre immersa in una vasta penombra rischiarata da luci e controluci che definiscono lo spazio, che aprono e chiudono le zone dove tutti agiscono, siano essi ai margini, ai lati o al centro, fermi ad osservare o in movimento.
Una scena pulsante, quindi, ad ampio raggio d’indagine, dove costantemente gli sguardi, le posture, le presenze sono puntate verso il singolo che cede il posto al prossimo, e poi al prossimo ancora ribaltando la visione, spostando l’asse dell’azione, rientrando nel gruppo, modificando le direzioni.
Sulla musica del compositore Mackenzy Bergile si creano cerchi, adunanze e smembramenti, camminate, corse, assoli, duetti, quartetti e coralità che ridisegnano lo spazio. Movimenti percussivi, di una qualità fluida, eterogenea, che l’energia dell’ensemble spalma e amplifica.
Tutto questo, manifesta in maniera poetica, non ordinaria, direi naturale e sincera, un’appartenenza comune – una comunità quindi – espressa col consapevole definirsi in un dialogo e confronto danzato che nasce lì per lì, improvvisato e attuato in un presente che richiede ascolto dei corpi, e degli animi, per esistere con gli altri attraverso la propria danza. Che diventa patrimonio condiviso. In quei corpi si percepisce un vissuto, una origine, una temperatura emotiva che contagia senza clamore, arriva a farci sentire parte di un consorzio umano bello, necessario.
Ce lo dicono gli sguardi dei danzatori spesso puntati verso il pubblico, e nel finale, quando si avvicinano sparsi in mezzo alla platea. In scena rimane uno solo di loro, unico testimone, forse, che può ricreare un’altra comunità, dare l’impulso per un nuovo incontro tra esseri umani.
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