Categorie: essai

essai_festival | S-Coppola all’italiana

di - 16 Settembre 2010
A conclusione degli entusiasmi, dei clamori e delle
sfilate in ripetizione lungo il red carpet, l’ultima edizione del Festival
del Cinema
si
lascia dietro una sensazione precisa, ovvero la delusione. Molte delle parole
scelte dal direttore Müller, di rimbalzo condivise da giurati e stampa, non
hanno trovato – aldilà degli intenti – corrispondenze concrete. Contaminazione,
ricerca, multiculturalismo, innovazione, sorpresa, i termini che sembravano
derivare per via ideale dalla trascorsa Biennale d’arte di Daniel BirnbaumMaking Worlds – sono stati compresi solo
marginalmente nell’insieme delle opere filmiche.

La presidenza di giuria affidata a Quentin Tarantino, regista maniacale e ironico del
postmoderno, non ha impedito (forse il contrario) che la premiazione divenisse
un’inconsapevole resa per sfinimento. La vincitrice Sofia Coppola, che con Somewhere tocca l’apice della noia e
dell’evanescenza incontrollata, è il simulacro perfetto del vecchio travestito
da nuovo: un’autrice under 40 al meglio di sé nella proposta di singole
immagini accattivanti, ma incapace di convincere nella resa complessiva, prima
di tutto per il ricorso testardo – e qui si scopre il nervo – a tematiche e
situazioni esaurite ormai da decenni. Si insiste a livello generale sulla crisi
delle relazioni umane, della comunicazione e dei valori, mentre la reale crisi,
piaccia o meno, è quella del cinema narrativo.

A tal proposito anche i cineasti italiani, nonostante gli
intenti nobili e certo sinceri, non fanno eccezione. Nel loro caso l’abbaglio
si chiama Storia: Capuano, Scimeca, Celestini, Martone, Placido, in misura minore Costanzo e Mazzacurati, i film nostrani per un verso o
per l’altro fanno sempre ritorno, come fuggitivi spaventati, al grande porto
del “sociale” e del “politico”. Una zavorra che vizia ogni risultato.

Tra le opere migliori in concorso si contano invece Meek’s
Cutoff
dell’americana
Kelly Reichardt,
scarna quanto evocativa messa in scena della lotta tra uomo e paesaggio
nell’Oregon del 1845 – si potrebbe definirlo un anti-western – e Ovsyanki di Alekesi Fedorchenko, opera dal ritmo dilatato, ricca
di riferimenti all’antropologia e alla ritualità.

Gli esiti convincono anche nel caso della sezione
parallela Orizzonti, quest’anno sotto l’egida di Sherin Neshat e implementata dall’apertura ai film
di durata variabile, i cosiddetti “fuori formato”. Estranee alle dinamiche del
concorso, e quindi selezionate con criteri di libertà maggiore, le opere
rivelano sostanze e forme diverse dalle abituali: per rendere un’idea si
segnalano, in sintesi estrema, la fiaba sensuale La belle endormie di Catherine Breillat (la stessa del passato Romance con Rocco Siffredi), l’armonia
insieme robusta e delicata nel Capo di Yuri Ancarani – con soggetto la cavatura del marmo nell’appennino
carrarese -, k.364 a journey by train di Douglas Gordon, il promettente Stardust del belga Nicolas Provost, vari lavori in 3d e il ritorno
di Paul Morrissey
dietro la macchina da presa.

Sommando tali segnali e considerando il festival veneziano
come esemplificativo di processi più ampi, si potrebbero trarre specifiche
conclusioni; soprattutto, pena la rilevanza e forse nel futuro la sopravvivenza
stessa della “poetica” autoriale, la necessità di allargare la produzione
mainstream e la distribuzione alla vera sperimentazione. Il che equivarrebbe a
implementare le possibilità espressive del cinematografo, con il superamento
definitivo di divisioni arbitrarie come quella che emargina la videoarte,
dissociazione incomprensibile in termini estetici.

Il grande pubblico avrebbe difficoltà a comprendere e a
gradire? È tutto da stabilire. Certo è, invece, che se il cinema è stato
teorizzato e definito nel passato quale mezzo popolare di comunicazione, oggi,
sottomesso all’impero della televisione e aggredito dall’avvento tecnologico di
internet, tale linguaggio artistico ha il compito e la possibilità di scovare
nuove direzioni. Appunto “somewhere” potrebbe essere la parola giusta, ma senza
la maniera e l’istinto reazionario di chi oggi vince.

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matteo innocenti

[exibart]

Visualizza commenti

  • mi sembra che i commenti precedenti siano generati da una mente frastornata, l'articolo non è nulla di speciale, è abbastanza semplice dire che vengono deluse le aspettative quando lo hanno già detto tutti.
    la critica su exibart viene fatta, e spesso è più che attendibile

  • luca s., le menti frastornate sono almeno due, per cominciare, mentre tu, che sei sicuramente parte attiva di exibart, ci potresti spiegare, a noi povere menti frastornate, com'è che non c'è traccia di questo articolo sull'elenco delle 'altre news', e bisogna andarlo a scovare.. cos'hai, la coda di paglia?

  • e a te com'è che ti importa così tanto di questo articolo da andare a cercarlo tra le news?
    un consiglio, metti da parte la presunzione e preoccupati di essere una persona leale.
    p.s. si, io faccio parte di exibart, ma di sicuro non gestisco nulla, e chi lo fa, credimi, ha le palle per farlo al meglio..

  • non si risponde a una domanda con un'altra domanda, e soprattutto senza la tua arroganza.
    magari mi spieghi quella frase sulla mia lealtà, che non riesco a capire, perché è priva di senso.
    non te ne rendi conto ma fai fare una brutta figura a exibart.
    la storia delle palle poi.. linguaggio da osteria, anzi da pub con televisori da 80" col volume a palla, che è probabilmente il tuo habitat..

  • con tutto il rispetto per la Coppola che ammiro in quanto degna rappresentante del mio genere e fine regista, il suo somewhere, non l'ho trovato affatto soporifero ma di una sconcertante banalità, il che è molto molto peggio direi.
    A parte alcuni spunti raffinati, ho aspettato con ansia tutto il tempo un finale eclatante che giustificassero i gracili, sbiaditi sviluppi del film e sopratutto placasse la ferocia dello sguardo di chi avevo trascinato al cinema.
    Ma forse in somewhere2 la vendetta, la regista ci regalerà quel mitico finale redentore.

  • "Somewhere" è il film di una femminuccia super-viziata. E' abbastanza ovvio, allora, che in un'epoca di femminucce viziate sia considerato un capolavoro.

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