Categorie: essai

essai_opinioni | Cinema della realtà

di - 4 Febbraio 2011
“Che mondo di merda!”

L’ispettore
Brozzi in

La banda del Brasiliano

In alcune puntate precedenti (Cinema dell’irrealtà, in Exibart.onpaper
n. 39; Cinema dell’irrealtà II, in Exibart.onpaper n. 63)
avevamo indagato forme di scollamento interessante tra il cinema contemporaneo
e la realtà, tra mockumentary e
monumentali effetti digitali. Adesso proviamo a intercettare lo sviluppo
attuale di una rinnovata rappresentazione del mondo circostante, attraverso un
primo caso nostrano.

Occorre dire innanzitutto che il realismo, oggi, può
assumere forme diverse e persino contrapposte, che vanno dalla denuncia
radicale al peggior conservatorismo espressivo. Un tratto, però, accomuna tutte
le forme di linguaggio realistico, in ogni epoca: qualunque rappresentazione è,
per forza di cose, una ri-presentazione.
Vale a dire, la rappresentazione avviene solo quando l’oggetto in questione
viene presentato per la “seconda volta”, per così dire, stabilendo una distanza
rispetto ad esso e alla sua realtà, senza distaccarsene.

La banda del
brasiliano (Patrizio Gioffredi, 2010) è un ottimo
esempio di questa presa di distanza, per così dire, “in diretta”. In questo
caso, il linguaggio del poliziottesco anni ‘70 diventa il filtro stilistico e
il codice interpretativo della realtà. Ne vien fuori la prima, autentica
rappresentazione generazionale dei trentenni attuali: i tanto vituperati –
dalla virtuosissima e autorevolissima classe dirigente del nostro Paese –
precari, bamboccioni, fannulloni & sfigati. Noi, insomma.


In questo risiede infatti l’aspetto più sorprendente de La banda del brasiliano: coglie
finalmente il fatto centrale (ma molto spesso ignorato, anche dalla critica)
che i poliziotteschi, oltre a offrire divertimento puro, ritraevano fedelmente
e crudelmente il Paese di quegli anni, con tutte le sue nefandezze e
contraddizioni. Quei registi e quegli attori, così derisi e sottovalutati
all’epoca, avevano il coraggio (molto più, in media, dei venerati Autori del
Grande Cinema) di denunciare le collusioni e i crimini propri di un’intera
società in feroce mutazione, senza paura di infrangere il perbenismo o di farsi
etichettare come reazionari. Va ricordato, a questo proposito, come una delle
radici forti del poliziesco all’italiana sia proprio il cinema civile dei vari Petri e Damiani. È anche per questo che film come Milano calibro 9, Roma a mano
armata
e Cani arrabbiati
risultano così affascinanti.

Qui assistiamo a qualcosa di molto simile. Un piccolissimo
film (2.000 euro di budget), un cinema povero ma assolutamente privo di pose
radical-chic, riesce laddove falliscono miseramente e costantemente medie
produzioni, ambiziose opere “da camera” e fiction inguardabili. Racconta
l’Italia dei nuovi invisibili, con piglio
ironico e riferimenti alle proprie mitografie. Il riflesso più efficace e
innovativo di questo approccio è l’idea di recuperare i materiali del passato
con un’attitudine anche filologica,
ma a differenza di ciò che avviene per moltissimi altri registi (e scrittori, e
musicisti, e artisti…), in modo che
questo recupero non risulti fine a se stesso. Siamo dunque un passo o due oltre
il citazionismo tarantiniano, ancora legato a una logica di autoreferenzialità
compiaciuta, per quanto di altissimo valore e in grado di catturare lo spirito
di un’epoca. Qui si riaggancia la realtà, proprio attraverso la bonne distance dall’oggetto fornita
dalla nostalgia per un genere (che è, in effetti, un intero universo culturale:
non gli anni ‘70, bensì “gli anni ‘70”…). O meglio, attraverso quella che
potremmo definire la “riattivazione della
nostalgia
”.


È come se si recuperasse una deviazione nella storia del
cinema italiano, e la si riportasse a regime. Così, il Brasiliano, il Biondo,
il Randagio e l’ispettore Brozzi recano sicuramente su di sé le tracce dei vari
Maurizio Merli, Tomas Milian e Luc Merenda nelle differenti declinazioni di un
lustro, ma hanno anche l’imprinting indelebile
e malinconico della vita quotidiana all’inizio del XXI secolo. La ricerca del lavoro
che non c’è, lo sfruttamento, il paternalismo peloso, il conflitto
generazionale costantemente mascherato e oscurato. L’impiegato cinquantenne del
Comune, sorta di arcitaliano inconsapevole, diventa quindi un miraggio di
sicurezza residuale e al tempo stesso l’obiettivo di una condanna collettiva
per le mille occasioni sprecate e le responsabilità mai ammesse: “Che i vostri babbi sono andati a lavorare in
bicicletta per comprarsi la macchina e gliel’avete presa voi… Che la casa ve
la siete trovata bell’e costruita… Che siete cresciuti con la certezza che se
non facevate cazzate vi migliorava la vita… Vi siete ingozzati di tutto, ve
la siete goduta, avete spremuto tutto senza pensare al futuro! Che tanto la
fortuna vi aveva fatto piovere tutto dal cielo: i polizieschi, la macchina, il
lavoro in comune
” (Luke Tahiti).

La banda del
Brasiliano per
ora è solo un episodio, certo, ma può essere anche l’annuncio di una vera e
propria “rinascita” del realismo nel cinema italiano, dopo tre decenni di gruppi
di amici e amanti in un interno. Con prospettive e mezzi adeguati, finalmente,
a questo tempo.

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Cinema
dell’irrealtà II

Cinema
dell’irrealtà I

christian caliandro


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 71. Te l’eri
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