A Christopher Nolan,
il regista di opere come Memento o Il cavaliere oscuro, evidentemente sì,
visto che su questa ipotesi ha costruito un kolossal da 200 milioni di dollari,
girandolo in sei Paesi diversi con un cast decisamente glamour e dopo otto anni, pare, di gestazione. Uscito a luglio
negli Stati Uniti, Inception
(letteralmente ‘innesto’) ha già ottenuto un primato non da poco, essendo stato
recensito, secondo l’affidabile Internet Movie DataBase, ben 357 volte. Ciò del
resto non deve sorprendere, se si pensa che Nolan è riuscito a mettere dentro a
un unico film, grazie a un gioco di scatole cinesi che rimanda esplicitamente a
Escher, Matrix, Ocean’s eleven, La donna che visse due volte e il Mago di Oz, condendo il tutto con
immancabile salsa freudiana.
Su Inception si
possono certo fare un’infinità di osservazioni (e di critiche), ma vi è una
frase in particolare sulla quale vale la pena riflettere, una frase messa in
bocca al tormentato Dom Cobb – un Leonardo di Caprio perennemente corrucciato –
che è stata stranamente trascurata dalla critica, ma non dai trailer,
nonostante riguardi l’elemento centrale del film: il concetto di innesto,
appunto. “Qual è il parassita più resistente?”,
si chiede Cobb. La risposta è nell’oggetto stesso dell’Inception: “Un’idea. Una
singola idea della mente umana può costruire città. Un’idea può trasformare il
mondo, e riscrivere tutte le regole”.
Pronunciata all’inizio del film, una frase così ci fa
sperare di stare per assistere a una grandiosa metafora del nostro tempo, un
film che, raccontando con l’impeccabile maestria di Nolan la difficoltà di
distinguere il sogno dalla realtà e la verità dall’apparenza – inquietudine
tipica dell’età in cui continuiamo a sguazzare, noi figli della società dello
spettacolo -, ci fornisca nuovi strumenti per ricreare un immaginario ormai
interamente colonizzato dal consumismo. Ci aspettiamo che Cobb, nella disperata
ricerca di una redenzione individuale che si procrastina di giorno in giorno,
tra un sogno e un altro, una sparatoria e una fuga, scopra qualcosa di
veramente grande, di immenso e maestoso, e non ci propini un happy end sui valori familiari e
l’importanza di accettare con serenità la caducità dell’esistenza umana. Ci
aspettiamo che l’amore e l’amicizia si fondano nella figura della giovane
Arianna – impersonata da una Ellen Page evidentemente condannata a portare nomi
mitologici -, per evocare l’urgenza di seppellire un passato che la nostra
epoca vede ormai solo come nostalgia o, peggio, vintage. Ci aspettiamo che l’acuta analisi della differenza che
intercorre fra il tempo della veglia, il tempo reale, oggettivo, e il tempo del
sogno, dei desideri, dilatato e potenzialmente infinito, sia qualcosa di più
che un mero espediente per effetti speciali o prolissi inseguimenti, e rinvii
magari alla necessità che abbiamo oggi, in questa società “cronofaga” (per
citare Paolucci), di reimpadronirci della nostra vita, espropriataci dalle
esigenze di un mercato che ci vuole consumatori obbedienti e vigili 24 ore al
giorno.
Ci aspettiamo un capolavoro, insomma, il capolavoro di un
regista che amiamo. Troviamo invece due ore e mezza di corse contro il tempo,
fiumi di parole e rompicapo cervellotici. Le idee nuove, purtroppo, sono
rimaste a dormire.
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mariangela priarolo
la rubrica essai è diretta da christian caliandro
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 69. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
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