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essai_registi | La verità su Scorsese

di - 27 Aprile 2010
Raggiungere un pubblico vasto e popolare
i suoi sogni, significa forse oggi fare avanguardia
e ci lascia ancora liberi di dire che popolare
i sogni dei lettori non vuol dire necessariamente
consolarli. Può voler dire ossessionarli.

Umberto Eco
Postille a
Il Nome della Rosa (1983)

In un bell’articolo pubblicato di recente su Micromega, Giona A. Nazzaro s’interroga
sulla crisi d’identità che sembra attraversare le poetiche di due registi molto
diversi tra loro – e per molti versi opposti – come Martin Scorsese e Tim Burton, nelle sale italiane in
contemporanea con i loro ultimi film, Shutter Island e Alice in Wonderland. Secondo il critico, “due dei sistemi espressivi più efficaci e riconoscibili
del cinema statunitense degli ultimi decenni faticano a ricollocarsi
filmicamente rispetto alle nuove esigenze di mercato hollywoodiane. […] ‘Shutter
Island’ e ‘Alice in Wonderland 3D’ sono dunque lo spettacolo affascinante di
due cineasti alle prese con una violenta crisi d’identità che commettono un
rituale seppuku pur di ritrovare la loro voce più autentica
”. In particolare, “‘Gangs
of New York’, il film che avrebbe dovuto consacrare Scorsese come il Luchino
Visconti americano, ha segnato invece un punto d’arresto della complessa
dialettica tra produzione e sguardo che, per registi come John Milius, Paul
Schrader e persino Walter Hill, si era interrotta già da molto tempo prima
”.
Ora, per Tim Burton sicuramente questo discorso
fila, dal momento che (Sweeney Todd a parte), negli ultimi anni l’ex regista dark per eccellenza appare
effettivamente in debito di creatività, affaticato, confuso. Per Scorsese la
faccenda è invece decisamente più complessa. Perché, se è vero che il suo
cinema attraversa quella che può apparire come una crisi d’identità, è
altrettanto vero che ha completamente introiettato questa crisi,
trasformando un fenomeno collettivo (che riguarda cioè l’intero percorso della
cinematografia recente) in uno individuale, e viceversa. E, cosa più
importante, lo fa non da oggi (vale a dire, come escamotage episodico), ma
inserendolo coerentemente in una ricerca che si può far risalire fino ai suoi
esordi. Una coerenza dolorosa, certo, fatta di scarti, deviazioni, interruzioni.
Ma quale coerenza non si genera in questo modo?

Ritorniamo un attimo a Nazzaro. L’accusa,
legittima, che viene mossa all’ultimo Scorsese (quello, per intenderci, che
parte da Gangs of New York, e dunque dal 2002) è quella di aver compiuto
una sorta di “tradimento”, una resa nei confronti della macchina hollywoodiana
contemporanea, proprio da parte dell’ultimo dei Mohi-ricani (come direbbe Carlito
Brigante), l’ultimo degli indomiti protagonisti della Nuova Hollywood e dei
gloriosi anni ‘70 (oltre ai già citati Milius, Schrader e Hill, Peckinpah, Friedkin, Rafelson).
Effettivamente, è innegabile che all’altezza
di Gangs, e ancor più con The Aviator (2004) e The Departed (2006), si sia
verificata un’importante transizione nel cinema di Scorsese – stilistica,
narrativa, produttiva – paragonabile solo forse a quella di Goodfellas (1990) e Casino (1995). Ma è una
contraddizione che avviene nel segno di una continuità altrettanto
importante; e questa continuità risiede sempre nel personaggio centrale. Quasi
tutti i protagonisti di Scorsese, infatti, sono caratterizzati da una
dissociazione di fondo, che muove i loro pensieri e le loro azioni, e che
disegna la loro posizione (solitamente di outsider) nel mondo. Questa
dissociazione consiste in una specie di “frizione” tra l’io e la realtà, un
rapporto irrisolto e conflittuale. La costruzione narrativa di tutti questi
personaggi è improntata perciò a quello che potremmo definire splitting self: un io che non è già
diviso ma che si divide, per così dire, in presa diretta; in modo che la
narrazione corrisponda al farsi di questa divisione.

Essa può assumere l’aspetto di una vera e
propria schizofrenia paranoide, come nel caso di Howard Hughes (The Aviator), o di una mania
ossessiva (Travis Bickle in Taxi Driver, 1976; Jake LaMotta in Raging Bull, 1980; Rupert Pupkin in
King of Comedy
, 1983); può essere un conflitto interno amletico, come per
Amsterdam Vallon (Gangs of New York), religioso e identitario (Charlie in Mean
Streets
),
fino a quello cristologico e metafisico di The Last Temptation of Christ (1988). Oppure una
dissociazione psichica “professionale”, come quella di Sam “Asso” Rothstein (Casino) e di Billy Costigan
(The Departed). D’altra parte, quest’ultima opera rappresenta essa stessa un
doppio, tematico e formale, dal momento che a sua volta è uno split-remake del poliziesco di
Hong Kong Infernal Affairs (Andrew Lau e Alan Mak, 2002) e che
racchiude inoltre, fin nel titolo, il gioco di parole e il doppio senso tra
“diviso” e “dipartito”. Perciò ha ragione, dal suo punto di vista, Nazzaro a
definire The Departed un “rito funebre”: Scorsese seppellisce il suo cinema,
ne sancisce la morte. Ma non la scomparsa.

Perché, più che di resa nei confronti della
situazione produttiva e creativa attuale, si deve forse parlare di
“adattamento”. La visione di Scorsese accede infatti a una fase nuova,
sopravvivendo a se stessa in forma fantasmatica, spettrale. Non è
detto, infatti, che la funzione di un’operazione artistica non possa essere di
natura squisitamente ossessiva, anche quando quella stessa proposta è partita
originariamente dalla posizione più liberatoria e libertaria, come quella della
New Hollywood. (Nazzaro coglie un aspetto importante di questa riflessione
sulla contemporaneità quando sottolinea che sia la prigione di Shutter
Island
,
sia il paese delle meraviglie burtoniano sono “sistemi concentrazionari”.)
Shutter Island
, dunque, è
esattamente questo: un fantasma che torna a ossessionare lo spettatore.

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christian caliandro


*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 65. Te l’eri perso? Abbonati!

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