Per una volta pare significativo
cominciare rispettando il senso cronologico di quanto successo e visto durante
la preview di quella che vuol proporsi come la seconda manifestazione d’arte
contemporanea nella capitale francese.
All’entrata del Grand Palais,
superata la scultura
Waterwagon dell’
Atelier Van Lieshout, un’addetta stampa della fiera si
premura di indirizzare verso la “piattaforma” indonesiana. Succede infatti che,
ogni tanto, venga dato un altro nome a quello che normalmente si chiama
“stand”, giusto per rendere il tutto più accattivante. Da qui si capiscono due
cose: l’importanza di far percepire il senso della formula parigina e, allo
stesso tempo, l’interesse che questa rivolge alla diversità culturale. Qualche
cifra: 114 espositori, 17 paesi coinvolti e 7 piattaforme, per l’appunto.
Altra novità di questa edizione si
trova nella dicitura “Guests”, vale a dire che la maggior parte delle gallerie
presenti ha potuto ospitare un artista all’interno del proprio stand,
affidandogli la progettazione dello spazio espositivo o presentando una sua
performance.
Di questo radicale cambiamento va dato il merito ai tre curatori Caroline
Clough-Lacoste, Henri Jobbé Duval e Lorenzo Rudolf,
che hanno fatto riferimento a
chiare lettere alla proposta architettonica di
Philippe Rahm in occasione di
La Force de l’Art 2009.
Tornando sulla scena artistica
indonesiana, Deddy Kesuma (l’organizzatore, collezionista, mecenate, vera e
propria personalità nel suo paese) ha scelto per
The grass looks greener
when you water it una serie di giovani artisti – età massima 35 anni – che miscelano pittura,
scultura e installazioni in un figurativismo pop. Non mancano quindi la vettura
da Formula 1 che si chiama
Democracy e che è tempestata di pallottole, lo scheletro dorato che
si fa il bagno, i supereroi/clown, le chitarre elettriche ripiegate su loro
stesse.
A fianco, la piattaforma africana
restituisce, invece, una proposta fra il tribale e l’industriale, dove il
progresso e l’occidentalizzazione non sono più visti alla strenua di paillette
e lustrini, ma sono l’elemento di crisi rispetto all’allegria delle opere
dell’immancabile
Georges Lilanga.
L’ancient combattant di
Dakpogan risulta così un’opera sincera,
che non cerca e non vuole la fama, forse perché è un uomo stanco che ha capito
il prezzo della gloria e che avrebbe parecchie cose da dire.
Chi ha sicuramente molto da
mostrare è la Finlandia che, all’interno della piattaforma
Stressed Beauty, offre uno momenti migliori di
ArtParis+Guests. Ideata da Leevi Haapala di Kiasma (il museo d’arte
contemporanea di Helsinki),
Antti Siltavuori (designer) e
Ben af Schulten (architetto), l’esposizione
ospita una trentina di artisti provenienti dalle 8 migliori gallerie finlandesi
ed è un elegante e funzionale tripudio di colori e trasparenze. Il ghiaccio e
l’aurora boreale sono i riferimenti naturali del
Visual Vortex di
HC Berg.
C’è poi un paese che, pur non
avendo una sezione officiale, riesce a concentrare le attenzioni del pubblico
e, negli ultimi tempi, a riscuotere un crescente consenso. È la Russia, che in
Oltralpe gode di un apprezzamento particolare (da considerare anche che il 2010
è l’anno delle manifestazioni Francia-Russia) e che per numero di artisti
presenti, di gallerie filo-sovietiche e per la qualità dei lavori presentati si
posiziona sicuramente sul podio di questa fiera.
A cominciare da due nomi su tutti:
Oleg Kulik e
AES+F. Il primo, guest della galleria
francese
Rabouan-Moussion, presenta
Dog Hotel, una sorta di canile al cui
interno è lo stesso Kulik (in video) a essere rinchiuso e ad abbaiare in modo
forsennato; i secondi, presso la galleria franco-ucraina
Taiss,
propongono in tutta semplicità un lavoro da
Last Riot e la scultura
Warrior n° 2: niente di incredibile ma, come
si dice, all’origine della forma. Rabouan-Moussion propone anche l’opera video
della giovanissima
Mary Sue, l’ultima installazione di
Gosha Ostretsov (Padiglione Russo all’ultima
Biennale di Venezia) e un cappotto militare di
Dimitry Tsvetkov (non lontano, in verità, da
quelli di
Olga Soldatova).
Da notare anche – all’interno di
Orel Art – le pitture di
Ivan
Plusch, ora
presente nella grande collettiva
Futurologia al
Garage Center di Mosca.
La Francia, padrona di casa, ha
organizzato ben due piattaforme:
Utopia/Dystopia (6 gallerie del quartiere
Marais/Beaubourg) e
L’appartement du collectioneur (5 gallerie della Rive Gauche).
Se nel primo caso la schizofrenia è il filo conduttore, nel secondo è la
sbadataggine: già qualcuno (
Elmgreen & Dragset) aveva affrontato la questione
durante la 53. Biennale. Fortunatamente ci pensa, però, Daniel
Lelong –
dell’omonima galleria multinazionale – a far sventolare in alto il
drapeau transalpino, grazie soprattutto
ai lavori di
Jaume Plensa (al
Musée Picasso di Antibes da metà maggio) e di
Pierre
Alechinsky (al
Musée
Granet di Aix-en-Provence da inizio giugno).
In attesa della prossima mostra
alla Lelong di Parigi (
Richard Serra), l’attenzione si dirige verso due gallerie che portano
dapprima in Svizzera e poi in Cina.
Sonia Zannettacci “assicura” il suo
stand con una proposta di armi d’ogni genere e fattezze, tra cui spicca
Humphrey
Bogart’s Memorial di
Arman,
mentre
Ifa Gallery propone alcuni scatti da performance di
Dai
Guangyu, un
artista che a quanto pare sa che “sporco lavoro” sia fare arte.
Di tutt’altro avviso sono invece
la gallerista
Lélia Mordoch che rimette d’attualità l’arte cinetica, la
Galleria
Repetto di Acqui Terme con
Victor Vasarely e, soprattutto, la galleria
tedesca che, poco più di un’ora dopo l’apertura, ha praticamente venduto già
tutto. Con buona pace di
Haim Chanin, l’unica realtà americana arrivata
al Grand Palais.