Volendo fare qualche raffronto, per altro non proprio casuale,
Viennafair non include nel prezzo del biglietto itinerari turistici alla scoperta di dimore storiche e luoghi monumentali; non emana bagliori di “antico” per donare riverberi di valore aggiunto alla concettualità delle post-neo-avanguardie dell’arte. Decisamente non ambisce a tanto.
Viennafair vuol essere strettamente ciò che è per definizione: una fiera d’arte contemporanea.
Sic et simpliciter. Aspira essenzialmente, e possibilmente, alla qualità intrinseca calcolata al netto del suo prodotto interno, registrando inevitabilmente anche l’aspetto banale della produzione contemporanea, componente significativa essa stessa di una sociologia di massa.
La nuova, modernista e asettica Messe Wien, la sede fieristica in zona Prater, inaugurata con l’edizione dello scorso anno, sembra funzionare. Tuttavia, sul piano del contenuto, l’edizione 2008 ha volutamente corretto la rotta del “peschereccio” dell’arte che nelle precedenti edizioni orientava fiduciosa la prua prevalentemente verso l’Est Europa, evidentemente con troppo ottimismo. Indietro tutta? Non proprio. Piuttosto, una navigazione verso tutte le rotte europee, e persino oltre le Colonne d’Ercole.
Pertanto, pur rimanendo vincolata a uno spiccato internazionalismo, e anzi potenziandolo,
Viennafair ha accresciuto sensibilmente il numero delle gallerie partecipanti. Ciò ha favorito anche la presenza di oltre una ventina di testate giornalistiche, tra le quali risuonavano i nomi di magazine noti e influenti, “Artforum” in testa. Dunque, da una vigilia densa di attese si è passati a un affollato collaudo inaugurale e quindi a una fase operativa in cui, già dalle prime ore, cominciava a spuntare qualche pallino rosso. In definitiva, un buon inizio.
Dell’ottimismo inaugurale se ne fregiava innanzitutto Edek Bartz, l’euforico e dinamico direttore della manifestazione, il quale sul bavero della giacca faceva sfoggio proprio di un benaugurante distintivo tondo e rosso fiammante. “
Un piccolo oggetto di design a cui tengo molto”, ci ha risposto sorridente, tanto per soddisfare la nostra personale curiosità. E quando poi, brindando con pura acqua minerale, gli abbiamo chiesto espressamente per “Exibart” una parola chiave per decifrare la
sua fiera, ce ne ha date un centinaio che in sintesi significano: “
Essere di supporto agli artisti di quelle aree dell’est dove le strutture private e pubbliche sono carenti, cercando però la qualità, non il numero sensazionale. Quindi, fare di Viennafair un punto d’incontro e di scambio tra est e ovest”. Detto altrimenti, neo-pragmatismo e strategia nello scacchiere internazionale dell’arte. Nel salutarci, il direttore della
Viennafair ha avuto parole lusinghiere per Exibart.com, di cui dice di apprezzare la dinamicità e l’apertura.
Lo segnaliamo non per vantarci, ma per sottolineare che d’altronde in questa fiera si parlava anche un po’ italiano.
Un po’ più del solito, per meglio dire, poiché le gallerie italiane erano sei, quindi numericamente raddoppiate rispetto alla scorsa edizione, seppure solo per due di esse si sia trattato di un ritorno, la
Traghetto (Venezia e Roma) e la
Di Maggio (Milano), ma in verità quest’ultima lo scorso anno veniva annoverata tra le tedesche per via della sua succursale berlinese. Quindi,
Ala (Milano),
Ca’ di Fra’ (Milano),
Goethe2 (Bolzano) e con
Studio Legale (Caserta e Roma) inserita nella
Zone 1, area speciale della fiera riservata a una ventina di gallerie selezionate da una commissione a seguito di un progetto riguardante un solo artista. La partecipazione se l’è guadagnata con i piccoli poetici ritratti su carta della giovane americana
Alika Cooper.
Dunque, un cinque per cento quasi tondo di madre-patria nel panorama delle 126 gallerie complessivamente presenti. Sul fronte generale, c’è da segnalare che molte delle gallerie occupano posizioni di rilievo nel ranking mondiale e di conseguenza sono solitamente presenti nel circuito del grande slam fieristico, come Art Basel. Quelle di casa costituivano la formazione più numerosa con quarantasei presenze, ma non si può certo dire che abbiano monopolizzato il circuito poiché, calcolatrice alla mano, tale cifra rappresenta solo il 36,5% del totale. Tra esse non mancavano le più accreditate a livello internazionale, come le viennesi
Hilger e
Krinzinger. Dunque, ribaltando la prospettiva, ben il 63,5%, ovvero ottanta gallerie, erano straniere. Una trentina delle quali tedesche. Due americane e due israeliane -le ricche e famose
Dvir e
Sommer– e, geograficamente nel mezzo, tutte le altre, da Mosca a Londra, da Parigi a Bucarest.
A colpo d’occhio, il concetto della trasmutazione trasportato sul piano testuale era l’aspetto che caratterizzava alcune opere di forte impatto. Come nel caso dello scultoreo umanoide bianco -in fusione di bronzo e smalto- asessuato e in evidente stato di mutazione, creato dall’altoatesino
Peter Senoner e presentato proprio dalla bolzanina Goethe2, la quale esponeva coraggiosamente anche altri pezzi dalle dimensioni museali. Quindi la galleria slovacca
Space Projects ha proposto la presenza forte e discreta di un etereo corpo femminile, privo di capelli, diafano, incolore come lo sfondo del dipinto, e che al tempo stesso assume un atteggiamento scimmiesco. È un’opera della slovacca
Dorota Sadovská, apprezzata anche per altri suoi lavori.
Diana e Atteone (2005), scultura-installazione dello spagnolo
Bernardi Roig, direttamente connessa al mito classico delle metamorfosi, ha avuto il primato non trascurabile di essere l’oggetto più osservato della fiera. Una grande teca di vetro velata da una tenda a lamelle a racchiudere un gruppo scultoreo sotto una luce bianchissima: ed ecco disvelarsi un inedito finale di partita tra i due protagonisti/antagonisti, malgrado il racconto tramandato da Ovidio; campeggiava in
Zone 1 presentata da una big del circuito internazionale, la viennese
Mario Mauroner. Sempre in
Zone 1, molto pubblico anche attorno allo spazio della zurighese
Nicola von Senger, che presentava un potente e silenzioso meccanismo idraulico a pistone di
Arcangelo Sassolino, in grado di rompere massicci assi di legno con una lenta azione programmata.
Quanto invece a un compatto schieramento di opere e di artisti da museo, la corazzata
Thaddaeus Ropac di Salisburgo ci è apparsa imbattibile con quella gente del calibro di
Beachler,
Balkenhol,
Baselitz,
Clemente,
Cragg,
Gilbert & George,
Gormley,
Kiefer,
Paladino,
Rockenschaub,
Wurm. Ma anche la trans-nazionale
Lelong ha fatto sentire il suo peso con i
Lüthi, i
Kounellis, i
Förg.
Nel day after circolavano le cifre ufficiali più significative, come il numero dei visitatori (15.508) e i prezzi di alcune vendite, con un record di 375mila euro per
Nude with Mirror di
Tom Wesselmann, opera del 1988 ceduta dalla galleria tedesca
Benden & Klimczak a una collezione viennese, o i 275mila euro per
Sodom (1997) di Gilbert & George, venduta dalla Ropac a un’altra collezione viennese, o ancora i 165mila per una scultura di Tony Cragg piazzata dalla viennese
Knoll a una collezione internazionale.
Quindi -per la serie: i premi non finiscono mai- le gallerie
Senn,
König e
Konzett si sono divise il
Galerienpreis della Camera di Commercio. Singolare, in questo ambito, l’installazione non in vendita dell’austriaco
Christian Eisenberger: con i suoi otto metri di altezza, ricostruisce in modo precario una torretta da guardiacaccia da cui pendono vuoti involucri a bozzolo a dimensione umana realizzati con nastro da imballaggio, con allusione a macabre messe in scena di impiccagioni i cui condannati, vivi o morti, non si sa più che fine abbiano fatto.
Se, com’è stato dichiarato, “
il dopo-fiera è anche un pre-fiera”, vorrà forse dire che gli organizzatori sono già al lavoro per la prossima edizione? Calma ragazzi, riprendete fiato!