Sophie Ristelhueber Arménie 1, 1989 Tirage couleur argentique 50 x 60 cm Edition of 3 plus 1 AP (2/3)
Dal 13 al 16 novembre 2025, a Parigi si aprono le porte della 28ma edizione di Paris Photo, la fiera internazionale dedicata alla fotografia e all’immagine sotto la cupola vitrea del Grand Palais. Con 222 espositori, la fiera riunisce 179 gallerie e 43 editori da 33 Paesi, di cui un terzo fa il suo ingresso per la prima volta o ritorna dopo anni di assenza a partecipare all’evento. Una fiera tutta al femminile, sotto la direzione di Florence Bourgeois e quella artistica di Anna Planas. Le artiste a esporre saranno il 39%, il che indica un aumento di 19 punti rispetto all’edizione del 2018.
Paris Photo si divide in sei sezioni: Principal, Projects, Prismes, Voices, Digital, Emergence, Editions. La prima costituisce la parte centrale con 134 gallerie, di cui fa parte la seconda, dedicato ai progetti di grandi dimensioni. Voices quest’anno lascia la galleria sud-est per raggiungere la cupola e beneficiare di maggiore visibilità con un taglio più di ricerca, nonostante la natura commerciale dell’evento. Inoltre, questa parte è caratterizzata dalla presenza di due curatori, quest’anno curatrici: Devika Singh, docente universitaria all’Institut Courtauld di Londra, e Nadine Wietlisbach, direttrice del Fotomuseum Winterthur in Svizzera. Digital, alla sua terza edizione, è dedicata alla fotografia nell’epoca del digitale con 13 gallerie a esporre. Emergence, al primo piano lungo il ballatoio, si compone di 20 progetti monografici di gallerie emergenti e, infine, Editions, che comprende 43 case editrici provenienti da 17 Paesi e che organizzeranno più di 400 firmacopie, momenti unici d’incontro con gli artisti.
Dal 2018, Paris Photo promuove inoltre l’iniziativa Elle in partenariato con il Ministero della Cultura, volta a portare avanti una politica in favore della parità donna-uomo. Elle prevede la selezione di lavori secondo un percorso tracciato da Devrim Bayar, curatrice del futuro museo KANAL, il Centre Pompidou di Bruxelles. Per questa edizione, le 50 opere scelte si sviluppano attorno al modo in cui i corpi si iscrivono in uno spazio, esplorando la visibilità, l’identità e la memoria.
Il 12 novembre si sono aperte le porte della fiera ai VIP e alla stampa e l’aria che tira è decisamente diversa da quella che si respirava tra gli stand di Art Basel poche settimane prima: la suddivisione degli spazi è simile, forse con i corridoi leggermente più stretti, ma gli ambienti di riposo o conversazione sono decisamente ridotti: meno panchine per sedersi, meno spazi dedicati a bar/caffetterie, meno consumo.
Qui si va per vedere (to see), non per semplice guardare (to look). La definizione bergeriana calza a pennello nella distinzione tra quanto l’intenzionalità nel guardare non implichi il compimento del vedere, quindi la realizzazione precisa della percezione. Ed è proprio così: infatti, il pubblico è d’altri tempi, non tanto per l’età quanto per l’approccio calmo e assennato, meno irruento. Si vocifera tra gli stand che l’affluenza sia maggiore dell’anno precedente e il ritmo è, sì, frizzante ma da collezione, ponderato e colto.
Appena si entra in fiera ci si ritrova con la posizione privilegiata di una parete di 36 metri in cui la galleria parigina Poggi (stand A24), dopo dieci anni di assenza dalla fiera, ritorna per la sezione Prismes con la presentazione monografica No Comment dell’artista Sophie Ristelhueber (Francia, 1949), vincitrice del premio Hasselblad 2025, che riunisce una sessantina di opere realizzate negli ultimi 40 anni.
Lungo tutta la parete, che vede fotografie appese a parete ma anche posate a terra come scelta allestitiva, si comprende come la fotografa abbia dedicato la sua ricerca a documentare le conseguenze dei conflitti nel mondo, tramite i segni lasciati sulle persone e sul territorio: «Ha attraversato territori in Europa, Medio Oriente e Asia centrale per testimoniare non gli eventi attuali, ma la Storia stessa, una storia in cui le tracce di disastri e rovine si accumulano, si fondono e diventano archetipi». Si cammina seguendo la linea della distruzione che percorre le vestigia delle architetture della città di Beirut, colpita dalla guerra civile e dall’invasione israeliana nei primi anni ’80, fino alla serie di suture chirurgiche Every One (1994), realizzate in un ospedale di Parigi a seguito del suo ritorno dalla Jugoslavia all’inizio del conflitto tra Serbia e Croazia, come riflessione sui segni iscritti sul corpo umano.
Girato l’angolo, si arriva allo stand B35 della galleria londinese Richard Saltoun, che presenta il lavoro di dieci donne pioniere del loro tempo, dalle contemporanee Marina Abramović e Shirin Neshat alle più storicizzate Valie Export e Helen Chadwick (Regno Unito, 1953–1996). Quest’ultima è stata selezionata da Elle e viene presentata la sua serie più provocatoria: In the Kitchen del 1977.
L’origine del lavoro era una performance realizzata da Chadwick al Chelsea College of Art di Londra, in cui l’artista, insieme ad altre tre performer, si vestiva con costumi che rappresentavano elettrodomestici da cucina “di genere”: un fornello, un frigorifero, una lavatrice e un lavello. Sono esposte quattro fotografie in cui la Chadwick viene ritratta con questi costumi, forma satirica nell’intento di abbattere lo stereotipo della casalinga, schiava della casa.
Proseguendo in uno dei corridoi centrali, ci si imbatte nello stand C30 della galleria giapponese MEM Multiply Encoded Messages, con una presentazione concepita come micro-mostra intitolata HIROSHIMA, Hiroshima, hírou-ʃímə: The Photography and Collective Practice of the All Japan Students Photo Association. Hiroshima Day è il progetto fotografico realizzato collettivamente dai membri dell’Associazione fotografica studentesca giapponese – AJSPA a Hiroshima tra il 1968 e il 1971. L’associazione riuniva studenti liceali e universitari e il titolo Hiroshima Day si riferisce al 6 agosto, giorno della pace di Hiroshima, memento dell’esplosione della bomba atomica americana nel 1945.
A metà degli anni ’60, la guida dell’associazione fu affidata al critico fotografico Tatsuo Fukushima, che spostò l’attenzione su questioni sociali urgenti, come le proteste studentesche e l’inquinamento ambientale durante il periodo di ricostruzione post-bellica del Giappone. Nel 1972 venne pubblicato il libro fotografico, a cui venne integrata una dichiarazione collettiva per l’Hiroshima Day, e i rapporti compilati dopo ogni sessione descrivevano lo scopo del progetto, il contesto e le specifiche sulle loro attività fotografiche, con riflessioni sui conflitti interiori affrontati quando hanno fotografato gli “hibakusha” (sopravvissuti alla bomba atomica), nonché i momenti di rifiuto e accettazione incontrati con i residenti. A 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e con la neoeletta premier Sanae Takaichi pronta a rivedere i principi cardine sul nucleare in Giappone, MEM invita a pensare alle possibili conseguenze delle nostre azioni nella società odierna.
Così Paris Photo si rivela particolarmente impegnata, oltre che sulle questioni di genere, anche sullo sviluppo di una coscienza geopolitica maggiore. Nell’ala est si trova la sezione Voices, con la galleria Vadehra Art (C57) di Nuova Delhi, che esordisce in fiera con un solo show dedicato alla fotografa indiana Gauri Gill (India, 1970), dal titolo The Village on the Highway (2021), a cura di Devika Singh. La pratica di Gill si basa su «Ricerche immersive, diversificate e collaborative sulle comunità rurali, emarginate e diasporiche dell’India».
In mostra 14 fotografie, selezionate anche nel percorso di Elle, realizzate tra gennaio e dicembre 2021, omaggio all’ingegnosità creativa dei contadini che, durante la pandemia, contestarono la proposta di deregolamentazione dell’agricoltura poiché avrebbe messo a repentaglio i loro mezzi di sussistenza, già fragili. Siccome dovevano vivere per le strade della città, hanno iniziato a trasformare i loro veicoli agricoli in case improvvisate: «Un’architettura di resistenza insolita, fatta a mano e autoctona, in cui le porte apparivano attraverso teloni e le pareti sorgevano dal bambù». Ragion per cui l’allestimento prevede quegli stessi teloni gialli, rossi e blu a ricoprire parte o tutta la parete, insieme a dei pezzi di bambù.
Nella stessa sezione, molto interessante anche la galleria egiziana Tintera (C54), con una presentazione monografica di Bernard Guillot (Parigi, 1950 – Il Cairo, 2021), dedicata a La città dei morti del Cairo, ovvero al cimitero o, meglio, a questa necropoli vivente, in cui la vita domestica si svolge tra tombe e mausolei, confondendo i confini tra abitazione e commemorazione.
In fiera si sperimenta molto anche con i supporti su cui la fotografia può esprimersi, come da Three Shadows +3 (B47) di Pechino, in cui l’artista Yunya Yin (Cina, 1990) pone le sue immagini su conchiglie enormi. O dalla galleria di Barcellona ADN (B21), dove Carlos Aires (Spagna, 1974) imprime su delle mannaie le sue immagini intitolate Love is in the Air (Inox Edition). O ancora da Intervalle (D19), dove Lucas Leffler (Belgio, 1993) compone le sue opere tenendo come base 168 iPhone.
Quando si passa davanti alla sezione Digital, si comprende fino a che punto si voglia spingere oggi il medium fotografico. La galleria newyorkese Heft (D28) presenta Hypertopographics, nuovo concetto visuale nato dal lavoro collaborativo tra il fotografo Edward Burtynsky (1955, Stati Uniti) e l’artista generato con l’AI, Alkan Avcioglu. Viene ripreso il celebre movimento New Topographics, coniato negli anni ’70 da William Jenkins per definire un gruppo di fotografi americani che immortalavano i contesti urbani “man-made”. Però questa volta si è di fronte a una veduta di un paesaggio dall’alto e, man mano, si percepisce che la sua conformazione è estremamente fitta, intricata, prospetticamente assurda ma perfettamente incastonata nel paesaggio e quindi irreale.
«Il lavoro diventa un’esplorazione metaforica della nostra esistenza all’interno di un’iperrealtà definita dall’eccesso, dove l’impronta dell’umanità supera continuamente la nostra comprensione». Si denuncia la società e la condizione di sovraesposizione alle informazioni a cui l’umanità sta giungendo ma, al tempo stesso, l’autorialità è condivisa con un artista creato ad hoc.
Proprio mentre la terra sembra mancarci sotto i piedi, i classici vengono in nostro soccorso, quando il progresso tecnologico era solo un sogno da inseguire e non un obiettivo raggiunto e di cui, per certi versi, pentirsi. Nello stand C22 la galleria americana Hans P. Kraus, Jr. presenta una selezione di dagherrotipi e ritratti dagli scopi differenti – artistici, documentari o sperimentali -, e tra questi spiccano tre opere dell’artista britannica Julia Margaret Cameron (India, 1815–1879), selezionata anch’essa da Elle. La fotografa divenne famosa per aver ritratto le celebrità del suo tempo e per aver lavorato a illustrazioni fotografiche che molto si avvicinavano alle pitture preraffaellite.
Sempre su questa linea, quella degli intramontabili grandi classici, la galleria londinese Hamiltons (C34) ci accoglie con uno stand grigio (come sempre) e chiuso. Entrando, l’aria è calda e profumata negli ambienti che accolgono mostri sacri come Helmut Newton o Irving Penn, fino a oggi, con il fotografo inglese Albert Watson (Edimburgo, 1942).
La linea resta classica ma con maggiore sperimentazione da Fraenkel (B34), con le donne di Diane Arbus. La parete principale ospita ben diciannove fotografie di Lee Friedlander (Stati Uniti, 1934), tutti autoritratti più o meno espliciti, che evidenziano un «Approccio incessantemente creativo all’inquadratura, creando immagini incredibilmente complesse che riflettono la sua visione fredda e leggermente distaccata».
Infine, un’opera piccola di Sophie Calle (Francia, 1953) dal titolo C ki [Who r u] del 2017. All’interno di una teca trasparente dalla cornice in legno, su fondo bianco, al centro in alto, un piccolissimo ritratto di un uomo anziano in forma rotonda, come quelle dei contatti sul cellulare, e sopra di lui le tre tacche del Wi-Fi. Sotto, una nuvoletta bianca, quella dei messaggi, con scritto in un francese gergale “C ki”, “chi sei?”. Incorporata al di sotto della teca, una placca grigia con scritto: «Eliminare il contatto. Non è facile. Quando mio padre è morto, non ho cancellato il suo numero dal mio telefono. Ieri, per sbaglio, l’ho composto e ho riattaccato subito. Poco dopo, la sua foto e il suo nome sono apparsi sullo schermo. Bob mi stava mandando un messaggio». Si combatte così con il progresso, che sembra lasciarci dei ricordi del passato: se comporre il numero di una persona che non c’è più è una forma di attaccamento e sopravvivenza, al tempo stesso la modernità ci gioca dei brutti scherzi e, per pochi istanti, ci fa credere nell’impossibile, nella resurrezione.
Ma saliamo al piano di sopra, dove si sente il maggior fermento tra la sezione delle case editrici, stracolme di giovani che sfogliano, domandano autografi e molto spesso comprano, e la parte degli emergenti, dove il passaggio è più veloce, ma più semplicemente si crea salotto in balconata. La galleria olandese Madé van Krimpen (M08) presenta l’artista Duran Lantink (Olanda, 1987) con il progetto Exactitudes (accuratezza), iniziato nel 1994 a Rotterdam. Il progetto è diventato una «Ricerca volta a mappare i paesaggi socio-culturali dello stile».
Attraverso rigide griglie fotografiche, ha documentato come l’individualità si pieghi ai codici di gruppo: sottoculture, scene e comunità rivelate attraverso sottili variazioni nell’abbigliamento, nella postura e nella presenza. Esilarante la tavola con la serie di collage dedicata alle Grannies (nonne): impermeabile, camicetta e/o foulard, capelli corti grigi, occhiali, una mano in tasca, l’altra quasi socchiusa e quell’espressione rugosa che racconta una vita.
«In ogni atto di memoria, linguaggio e immagine sono assolutamente solidali e si soccorrono a vicenda: un’immagine sorge spesso là dove mancano le parole, e una parola sorge là dove sembra mancare l’immaginazione», Georges Didi‑Huberman.
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