© Abdelrahman Alkahlout, 2025 IPA Photographer of the Year
In Niente e così sia, Oriana Fallaci scrive una frase che sembra fare un salto di quasi 60 anni, planare sulla gran parte di un continente, il più largo del mondo, e arrivare ai nostri giorni, in quella Striscia di Terra che, non conoscendo i piani di Dio, potremmo dire – per lo meno – dimenticata dall’essere umano: «Perché quasi niente quanto la guerra, e niente quanto una guerra ingiusta, frantuma la dignità dell’uomo».
E guardando a un altro lungo viaggio, quello che i media – verbali e fotografici – devono compiere da Gaza per arrivare fino a noi, per documentare, per raccontare, ecco, in quel viaggio è importantissimo, fondamentale, che il messaggio arrivi spoglio dalle sovrastrutture che un percorso così lungo potrebbe addizionare, incollare sulla superficie quasi fosse appiccicosa. In questo le immagini, ancor più delle parole, hanno la forza di raccontare con un linguaggio proprio, senza alcuna struttura “altra” che si frapponga tra un racconto e una scena: la scena diventa racconto e, improvvisamente, quella distanza abissale si annulla un po’.
Proprio per questo, quando l’International Photography Awards ha sancito i vincitori della sua 22ma edizione, non stupisce come il centro della scena sia stato conquistato da due progetti fotografici prettamente antitetici, esplicativi circa le due possibili anime del mezzo fotografico, che si è fatto traduzione materica di una ricerca artistica che indaga le ombre, nel caso di Murmures de l’âme, di Marie Sueur (), e impetuoso sradicamento della coltre di ombre, nel caso della fotografia di reportage di Abdelrahman Alkahlout, con la sua serie Echoes of Genocide: Gaza’s Civilian Suffering.
Photographer of the year IPA, Abdelrahman Alkahlout, fotoreporter palestinese, ha messo in atto un racconto visivo capace di documentare gli orrori della devastazione e della guerra con scatti che non hanno alcuna pretesa compassionevole. Foto dal taglio veloce, mai artefatto, che riescono a generare una intrinseca forza icastica che, da sola, smuove chi la osserva. Non c’è spettacolarizzazione del dolore: si tratta di ferite aperte che non rimangono tali, ferite che urlano, che si fanno memoria, denuncia, che diventano testimonianza della fragilità umana e della forza che l’uomo trova in quella sua stessa fragilità, in un dolore che fa male anche a chi si limita a guardare da lontano.
Alkahlout ha raccontato a exibart: «Attraverso il mio obiettivo, cerco di preservare ciò che resta dell’umanità in mezzo alla distruzione, per mostrare al mondo i volti, le emozioni e la dignità di persone che spesso vengono ridotte a semplici numeri. La storia di Gaza non è solo una storia di sofferenza, ma anche di resilienza, fede e amore che resistono anche di fronte al genocidio».
Bambini mutilati o uccisi, famiglie in fuga, madri lacerate dal dolore, medici che operano sul pavimento di ospedali distrutti, macerie ripiegate su sé stesse in dialogo con uomini prostrati in preghiera. «Il successo di quest’opera risiede nella sua capacità di spezzare il cuore dello spettatore. L’elemento più importante nella fotografia di cronaca è la tragedia, e questa serie cattura, da diverse prospettive visive, le vittime di questa tragedia: bambini feriti, la perdita di persone care e famiglie sfollate dalle loro case. In ogni fotogramma di questa serie, il fotografo ha creato immagini piene di potenza, immagini che commuovono profondamente e devastano lo spettatore», afferma Alex Ng, giudice del concorso.
D’altro canto, le fotografie della Sueur, Discovery of the year IPA, appaiono sospese tra sogno e realtà, utilizzano filtri e composizioni simboliche per esplorare il terreno dell’inconscio. Giudicato da Juan Curto come «Un lavoro poetico di grande forza visiva», il progetto di Sueur trasporta lo spettatore in una dimensione rarefatta. Immagini a tratti fuori fuoco, sfuggenti; scatti monocromatici o addirittura in negativo. Marie Sueur opera in uno spazio che è mentale prima ancora che visivo, in una parola: onirico.
Gli IPA 2025 dimostrano in ultima analisi come la fotografia, al di là della tecnica, resti un linguaggio universale capace di veicolare messaggi diversi ma complementari. Accostare Alkahlout e Sueur significa sottolineare la necessità etica di puntare con lucidità un faro su ciò che il mondo vorrebbe ignorare e, allo stesso tempo, permettere alla libertà poetica di trasformare l’immagine in simbolo interiore. In bilico fra tragedia e lirismo, fra cruda realtà e sogno sfocato, questi due fotografi rendono gli scatti uno strumento di verità: una verità che, come la luce, può ferire e illuminare.
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