Categorie: Fotografia

Fotografia come veicolo di consapevolezza sociale. Walter Rosenblum raccontato dalle sue figlie

di - 4 Dicembre 2025

Walter Rosenblum è stato un grande protagonista della fotografia del Novecento. Figlio di immigrati ebrei, è partito giovanissimo “militando” tra le fila della Photo League, impegnata a rappresentare la società nascente americana di inizio secolo, ma soprattutto le fasce più basse, le comunità marginalizzate, i gruppi appena giunti nella Grande Mela che avrebbero contribuito alla sua costruzione. Incrociando le strade dei più importanti fotografi dell’epoca – da Paul Strand a Lewis Hine – la sua carriera professionale lo portò Oltreoceano, come soldato dello sbarco in Normandia e testimone della liberazione di Dachau. Ora, l’occasione di vedere il suo lavoro è al Centro Culturale di Milano nella mostra Il mondo e la tenerezza, che racchiude oltre 110 fotografie vintage provenienti da New York, insieme a rare documentazioni d’epoca.

Walter Rosenblum, Chick’s Candi store, Pitt street, N.Y.C., 1938. Copyright Heirs Walter Rosenblum

A custodire l’eredità di questo straordinario autore sono le figlie Nina e Lisa Rosenblum: la prima, regista che con documentari come Walter Rosenblum. In Search of Pitt Street e Ordinary Miracles. The Photo League’s New York, ha trasformato l’opera paterna in cinema; la seconda, erede di una famiglia che ha fatto della fotografia un racconto critico, scientifico e affettivo. Con loro abbiamo ripercorso la storia dell’uomo dietro l’obiettivo, tra vita familiare, guerre e un chiaro obiettivo: quella di comprendere nel profondo e dare dignità all’individuo, cercandone la luce anche nelle situazioni di difficoltà, indigenza o conflitto. Una lezione che resta preziosissima anche oggi dove l’inedita diffusione delle immagini è capace di creare turbamento, consapevolezza e mobilitazione civile.

Walter Rosenblum, Hopscotch, EAST HARLEM, 1952. Copyright Heirs Walter Rosenblum

Vorrei iniziare parlando della New York Photo League, che ebbe un ruolo importante nel rappresentare e nel dare voce a una società nascente, soprattutto nelle sue fasce più povere. Quale era la relazione che si instaurava tra Walter Rosenblum e i suoi soggetti fotografati? Come li sceglieva, qual era il tuo approccio?

Nina Rosenblum: «Nostro padre era una persona emotivamente molto connessa. Quando ti guardava negli occhi ti capiva. C’era un rispetto profondo, che le persone, quando lo incontravano, percepivano immediatamente e da cui erano profondamente toccate. Era come se le maschere sociali scomparissero. Quando si relazionava con qualcuno per fare una fotografia, riusciva tirargli fuori i suoi pensieri più intimi, i sentimenti, l’anima, la sua struttura emotiva. Credo che fosse un dono straordinario. Che si trovasse a New York, nel Lower East Side dove era cresciuto, o quando andò a East Harlem nel 1952 per documentare l’ondata di immigrati latinoamericani, o quando si recò ad Haiti, o in Europa, che amava appassionatamente, e in Italia, che considerava quasi una seconda casa… Non importava chi fosse la persona o quale fosse il suo background: dal grande artista che fotografava, alla persona più povera, al contadino di un piccolo paese. Era qualcosa di molto profondo, perché basato su una filosofia di umanesimo, uguaglianza e giustizia. Ed è questo che riusciva a rivelare nei suoi ritratti».

Walter Rosenblum, Pigment print by Joan Powers January 31, 2006. Copyright Heirs Walter Rosenblum

Com’è stato crescere con un padre che aveva uno sguardo così umano e profondo verso le persone? Com’era per voi vivere con una persona del genere?

Lisa Rosenblum: «Era una persona molto multidimensionale e sfaccettata. Aveva un grande interesse per lo sport, quindi giocavamo spesso a tennis insieme. Aveva interessi molto diversi. Ma al centro c’era ciò che diceva mia sorella: un profondo interesse per la condizione umana, per le persone e per creare una vita migliore per loro. Non era una persona pesante. Non veniva a casa portando pesantezza. Era una persona complessa ma molto divertente».

In realtà la sua missione non era solo raffigurare le persone, ma anche affrontare una questione politica, potremmo dire.

LR: «Sì. Nella sua camera oscura aveva appesa alla parete una citazione di Cechov. Non ricordo le parole esatte, ma diceva: “Volevo capire le cose per come sono, e le cose per come potrebbero essere. Le cose per come dovrebbero essere.” Era la struttura del suo fare arte».

Tornando alla Photo League…

NR: «Qualche anno fa abbiamo realizzato un film intitolato Ordinary Miracles: The Photo League’s New York. La Photo League fu fondamentale nella formazione di nostro padre. Aveva 17 o 18 anni quando si unì alla Photo League. E fu seguito da persone molto importanti, tra cui Paul Strand. Provenendo da una famiglia molto povera di immigrati a New York, quasi autodidatta si mise nelle condizioni di incontrare i più grandi fotografi del mondo del tempo. Anche se non erano membri dell’organizzazione, venivano invitati a parlare o a mostrare il loro lavoro. Arrivarono Dorothea Lange, Henri Cartier-Bresson, Eugene Smith. Per un giovane entusiasta, desideroso di imparare tutto ciò che poteva, fu un luogo fertile e straordinario che gli cambiò completamente la vita».

Walter Rosenblum, Black Woman in Doorway, Pitt Street, N.Y.C., 1938 Copyright Heirs Walter Rosenblum

E realizzando questo film avete approfondito l’archivio. Avete trovato qualcosa che vi ha sorpreso?

NR: «Quando abbiamo fatto il film siamo state molto fortunate, perché i membri storici della Photo League che siamo riusciti a intervistare erano ancora vivi, anche se molto anziani. Alcuni avevano più di novant’anni, altri sono morti poco dopo le riprese. Quello che ho imparato incontrando queste persone è che erano individui appassionati, premurosi, profondamente connessi, ognuno a modo proprio. Non erano copie l’uno dell’altro: le loro fotografie non si assomigliano. Erano un gruppo profondamente individuale, eppure unito con lo scopo comune di vivere e testimoniare gli anni della Depressione».

LR: «A pensarci mi commuovo, perché la gente era così povera allora… Eppure questo gruppo dedicò la propria vita mostrando tutto questo, cercando di cambiare le leggi, facendo capire cosa fosse la vita comunitaria per strada, e la gioia di quella vita, indipendentemente dai soldi che si avevano… Ognuno lo guardava da un’angolazione diversa. Nulla era uguale, ma erano un gruppo di persone premurose, energiche, entusiaste di questo nuovo mezzo che era la fotografia».

Walter Rosenblum, Gaspé Fishermen, 1949. Copyright Heirs Walter Rosenblum

E parlando di archivio, pensate di aver aggiunto qualcosa con il vostro sguardo alla narrazione su Walter Rosenblum?

NR: «Credo che lui abbia influenzato la nostra comprensione del mondo, e anche nostra madre, che era una storica della fotografia. Siamo cresciute circondate da persone appassionate all’arte. L’ambiente artistico a New York era ricchissimo di artisti straordinari, pieni di joie de vivre. I loro migliori amici, Milton e Blanche Brown — lui un grande storico dell’arte, lei specialista in poesia greca e romana — venivano ogni anno in Europa. Un grande clima di contaminazione di cui i nostri genitori erano al centro».

A proposito di società, la forbice della disuguaglianza sociale è sempre più allargata. Questo succede in tutto il mondo, e anche negli Stati Uniti è un tema urgente. Credete che la fotografia possa avere ancora oggi un ruolo sociale?

NR: «La fotografia è una lente sul mondo capace di generare cambiamento sociale, e questo è valido per ogni epoca. Era vero quando Lewis Hine fotografò i bambini immigrati lavoratori e contribuì a cambiare le leggi sul lavoro minorile negli Stati Uniti. E sarà vero ancora, quando una nuova ondata di fotografi rivolgerà lo sguardo al divario di ricchezza nel mondo, particolarmente oggi negli Stati Uniti. Quindi è estremamente importante. Al momento può sembrare che non porti cambiamenti, ma la storia ci mostra che invece lo fa».

LR: «È un meccanismo vitale per cambiare la società, anche se questo richiede tempo.  Pensiamo al suo ruolo nelle guerre. Portare la guerra in Ucraina nelle case delle persone, portare Gaza nelle case delle persone. È stato uno dei meccanismi di comunicazione più importanti. In questo, i cameraman e i fotoreporter di guerra sono persone estremamente coraggiose e esposte al pericolo. Nostro padre lo è stato. Sbarcò a Omaha Beach nel D-Day, e combatté in prima linea armato solo di una pistola. E come dice nel film, per fotografare dovevi alzarti in piedi. Non potevi restare a terra al riparo. Così tanti cameraman furono gravemente feriti o uccisi. Il suo collega venne colpito proprio accanto a lui».

Walter Rosenblum, Omaha Beach Rescue, D-Day-+1, NORMANDY, 1944 Copyright Heirs Walter Rosenblum

Cosa lo spingeva a esporsi così tanto al pericolo?

LR: «Il documentario sociale, la visione del mondo che stiamo descrivendo — far emergere i problemi del proprio tempo er poi immaginare il futuro — era sempre accompagnato da un’estetica rigorosa, un’estetica esigente riguardo all’opera in sé. Non era mai sufficiente. Nostro padre diceva sempre: non basta fotografare la condizione sociale. L’immagine deve essere un’affermazione artistica, dotata di valore».

Da chi lo aveva imparato?

LR: «Veniva da Paul Strand, e da tutta quella tradizione. Il sociale assieme all’estetico. L’immagine doveva poter stare su una parete accanto a un Rembrandt o a un Raffaello. Non poteva essere un’opera minore, priva della struttura, della composizione, della comprensione grafica che caratterizzano la grande tradizione artistica. Volevano appartenere alla linea dei grandi artisti. Non erano giornalisti. Non sto dicendo che una cosa sia migliore dell’altra — il giornalismo ha un ruolo vitale — ma non erano fotoreporter. Non venivano pagati per realizzare quelle immagini. Era fine art. E questa è una distinzione molto importante, perché un giornalista realizza un’immagine e la deve mandare subito in stampa. Loro invece perfezionavano attentamente le proprie opere».

C’era un procedimento specifico?

LR: «Prendevano una stampa, realizzavano ciò che chiamavano la stampa perfetta, e poi la immergevano nell’oro per ottenere una tonalità marrone calda, oppure nel bagno al selenio, affinché avesse la resa che volevano. Erano tanto attenti all’estetica dell’immagine quanto al contenuto».

Walter Rosenblum, Girl on a Swing, Pitt Street, Lower East Side, N.Y.C.,1938. Copyright Heirs Walter Rosenblum

Per concludere, c’è un’immagine che pensate che, più di tutte, rappresenti non solo la ricerca, ma l’umanità di Walter Rosenblum?

NR: «Quella che riflette maggiormente la filosofia di nostro padre è probabilmente Girl on the Swing, scelta come poster della mostra. Ritrae una ragazzina proveniente da un contesto modesto di New York, che dondola verso l’alto, verso la speranza. È un’immagine potentissima. E poi quest’altra, sulla copertina del catalogo. Tutta la struttura dell’immagine converge su questo giovane afroamericano che, attraverso la storia, porta con sé un’eredità così complessa. E presentarlo come protagonista, il fulcro della nuova era che deve arrivare, è un’immagine potentissima. È una domanda aperta sul futuro, capace di interrogare lo spettatore sulla propria responsabilità».

Immagino che questa non sia solo una testimonianza verso il lavoro di Walter Rosenblum, ma anche il senso della vostra missione, ciò che volete condividere con il pubblico.

NR: «Vogliamo assicurarci che il mondo continui in modo positivo e che i giovani abbiano la possibilità di sperare in un futuro migliore. È per questo che lavoriamo nell’arte: per creare un futuro più giusto e più equo».

Walter Rosenblum, Boy on Roof, Pitt Street, N.Y.C., 1938 Copyright Heirs Walter Rosenblum

Nata a Pesaro nel 1991, è laureanda nel corso di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l'Accademia di Brera. È residente a Milano dove vive e lavora come giornalista freelance per diverse testate di arte, concentrandosi sul panorama contemporaneo tramite news, recensioni e interviste su online e cartaceo. Oscilla tra utopia e inquietudine; ancora tanti sogni da realizzare.

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