Gibellina Photoroad 2025, Feng Li
Chi non ha mai respirato l’aria metafisica di Gibellina farà fatica a figurarsi questi luoghi dell’immaginazione e il loro effetto straniante sulle quindici mostre che costituiscono la quinta edizione di Gibellina Photoroad, e non tanto perché si tratti di un esperimento urbano, quanto piuttosto per la portata immaginifica data dall’interazione tra le sue architetture e l’immaginario fotografico in mostra. In questo senso, Gibellina Photoroad non è un tradizionale festival della fotografia, ma si configura come un dispositivo di riflessione sullo statuto stesso dell’immagine e delle sue potenziali adesioni o conflitti con il reale.
Il concept curatoriale scelto da Arianna Catania, Timeless, intendendo il tempo come campo di forze da disarticolare, più che un tema è un criterio intorno al quale organizzare l’esperienza fotografica dei quindici progetti espositivi prescindendo da una precisa linearità narrativa, anzi intendendoli tutti come progetti marcatamente site-specific: Gibellina non potrebbe mai essere il contenitore di un tracciato univoco. I percorsi espositivi – che si snodano dall’Orto Botanico agli spazi della Fondazione Orestiadi – diventano così organismi sensibili, carichi di memoria e di tensione.
Good Day di Feng Li, ad esempio, trasforma piazza Beyus in un surreale solarium, mentre Le bonheure tue di Rima Samman, artista franco-libanese che immerge nei colori del racconto fiabesco la storia di un Libano irrimediabilmente perduto, trova le sue corrispondenze melanconiche nell’orto botanico. Mentre Gibellina Shinkansen Station di Arnaud Hendickx modifica la facciata del Municipio in una stazione ferroviaria dai tabelloni incomprensibili, Una città quasi infinita di Paolo Ventura, con i suoi equilibristi sospesi sul nulla di vie deserte, e le quinte e i sipari che introducono alle pose di circensi dei primi del Novecento, si presenta come un mondo ibrido, personalissimo nel coinvolgimento delle foto private, e universale nella struttura di un racconto illogico come un sogno. Le case lì intorno, che sono già di per se stesse dei racconti ulteriori, fatti di piccoli giardini seminascosti da aperture severe, risuonano di quelle immagini geometriche e delle loro finestre impossibili.
Nel fitto succedersi di eventi e visite guidate colpiscono per intensità di riflessione le parole di Alex Majoli, in residenza alla Fondazione Orestiadi nel mese di marzo. La sua mostra, Ozio, è allestita negli atelier della Fondazione. Majoli prende a pretesto una cornice narrativa e costruisce al suo interno tre diverse percezioni dello spazio, gli interni, i ritratti, i luoghi all’aperto, con l’intenzione di coglierle sempre da una soglia liminare che possa sottrarre le immagini a una retorica volutamente atteggiata o volutamente dimessa. Gli scatti che presenta Majoli, in assenza di una genealogia neorealista della fotografia italiana, restituiscono echi di Sander e Avedon, fino a lambire, nei ritratti metaforici della fotografia costituiti dalle immagini dei segnali stradali cancellati dal sole, le soglie percettive di Lewis Baltz.
Diachronicles di Giulia Parlato e Donato Di Trapani, propone un’esperienza immersiva che si muove per sottrazione: il suono e i lampi di luce agiscono come un controcampo sensoriale di uno pseudo scavo archeologico in cui si allude a reperti invisibili. Il lavoro curatoriale di Melissa Pallini, sciogliendo il nesso naturale tra gesto e traccia, ha enfatizzato la tensione tra presenza e assenza. La nostalgia di un tempo mai vissuto è il focus di Ánemos, di Miriam Iervolino, curata da Giuseppe Majorana negli spazi di Belìce/Epicentro. Il punto di partenza, come molti dei progetti che negli anni si sono succeduti a Gibellina, è l’indagine sentimentale sull’eco del terremoto del Belice: ancora una volta quel trauma non è solo memoria storica ma una materia viva, che chiede di essere trasformata in linguaggio visivo.
Nello stesso luogo è ancora possibile visitare l’istallazione Luce residua, di Rossana Taormina, che trasforma lo spazio di uno scantinato in una camera oscura simbolica in cui può rivelarsi il residuo sensibile di un tempo insieme ricordato e rimosso. Il patrimonio culturale immateriale dell’umanità Unesco è l’oggetto di UN:IT fotografie del patrimonio immateriale, a cura di Alessandro Coco, Fabrizio Magnani, Elena Musumeci, Elena Sinibaldi, progetto dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero della Cultura e dell’UNESCO: una sorta di sintesi dinamica di ciò che può fare la fotografia a contatto con le trasformazioni e con gli usi del patrimonio immateriale d’Italia. Un approccio simile, ma con declinazioni partecipative, muove Singolare plurale. Un ritratto per la città: il coinvolgimento della Comunità Terapeutica CTA Salus e dei bambini di Gibellina pone la questione dell’autorappresentazione e della responsabilità collettiva dell’immagine. Coordinato da Simona Ghizzoni, Arianna Catania e Melissa Pallini, il progetto riscrive i confini tra artista, soggetto e comunità.
Ancora a temi antropologici, in particolare connessi agli usi devozionali, è ispirato l’evento performance di apertura del festival. In Devorazione Hélène Bellenger e Tal Yaron presentano una mensa di immagini ispirati alle cene di San Giuseppe che tradizionalmente si celebrano il 19 marzo. Destituite della loro aura religiosa, le immagini trasferite sui pani sono l’ingrediente essenziale di un banchetto in cui la pratica ancestrale dell’iconofagia si riscopre metafora del nostro compulsivo nutrirci di contenuti visivi.
Al MAC Ludovico Corrao, la mostra Erbario impossibile di Rossella Palazzolo e Sergio Zavattieri (curata da chi scrive) offre un doppio esercizio di ricodifica dell’immaginario vegetale: Zavattieri, omaggiando Karl Blossfeldt, presenta eleganti composizioni, a confine tra fotografia e pittura, in cui le piante sono paradossalmente sostituite da cloni di plastica, mentre Palazzolo, trasferendo le immagini su cemento, genera una cartografia fossile, un atlante in cui la natura è memoria visiva. Ancora dedicati al rapporto fra immagine e natura sono le proiezioni sulla sfera della Chiesa madre di Quaroni del progetto Altered Ocean di Mandy Barker: immagini apparentemente innocue, colorate e rassicuranti, che rivelano l’insidia delle tonnellate di rifiuti plastici che finiscono in mare.
Diversa accezione della natura quella di The Nature of Things di Balázs Turós, allestita negli spazi esterni del Teatro Consagra. Come il luogo che li accoglie, ancora cantiere e già rovina, gli scatti dell’artista ungherese parlano dell’intersezione paradossale fra nascita e disfacimento.
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