Jeff Wall, Housekeeping, 1996, gelatin silver print Copyright Jeff Wall. Courtesy Hauser & Wirth
FOTO/INDUSTRIA, la Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro, promossa dalla Fondazione MAST e giunta alla sua settima edizione, è un’occasione da non perdere. Articolata in dieci mostre e sette sedi, si tratta dell’ultimo appuntamento di una triade iniziata con la Biennale dedicata al Cibo nel 2021 e al Gioco nel 2023, temi centrali dell’esistenza umana. Il tema stavolta è la CASA (HOME), declinato nelle sue varie sfumature che dal privato sforano nel sociale, con lenti che attraversano discipline come l’architettura e l’urbanistica, l’economia, la politica, il cambiamento climatico e che rendono così ragione della varietà di prospettive e di approcci che utilizzano i dieci artisti in mostra.
All’interno della Biennale, alla Fondazione MAST, la mostra dedicata a Jeff Wall dal titolo Living, Working, Surviving, curata da Urs Stahel, fa da perno centrale da cui si snodano le altre mostre sparse in diverse location in città. L’artista canadese, nato nel 1946, è ormai un’istituzione per la storia della fotografia della seconda metà del XX secolo ed è affine alla “Picture Generation” statunitense, che ripensava al ruolo e alla funzione dell’immagine con un approccio concettuale. Dopo avere esordito negli anni ’60 nell’ambito dell’arte concettuale, si sposta verso lo studio dell’immagine, integrandola nell’invenzione del light-box (il primo è del 1978), dispositivo mutuato dalla pubblicità e adattato a fini estetici. L’artista concepisce l’arte come evento ed è fortemente legato al cinema; le sue immagini infatti sono per lo più situazioni immaginarie ricomposte in studio utilizzando persone ordinarie, che ripetono i gesti quotidiani della loro vita.
Di solito sono persone umili che vengono restituite in dimensioni reali e fortemente retroilluminate, subendo un processo di canonizzazione dell’immagine che dona loro una patente di nobiltà. Altre volte le figure sono immerse nel paesaggio rurale soprattutto, periferie a margine di megalopoli, e ricordano i quadri di storia antichi. Del resto è l’artista stesso ad ammettere che si ispira a scenari pittorici (a volte ci sono vere e proprie citazioni da quadri moderni, ormai divenute icone) e compone le scene ricercando equilibri formali e coloristici mutuati dalla metodologia pittorica. Il processo fotografico è molto elaborato: infatti, dopo avere accuratamente preparato la scena, realizza diversi scatti (24 al secondo), scegliendo infine l’immagine che diventerà icona. Un altro aspetto su cui si sofferma l’artista e che rende ragione dell’attrattiva e del coinvolgimento del pubblico nei confronti delle sue fotografie, è la vicinanza e l’intimità della macchina fotografica con i soggetti fotografati. In qualche modo anche noi spettatori, grazie alla grandezza delle immagini e all’apparente naturalezza dei gesti (appartenenti a una ritualità antica o contemporanea) siamo coinvolti emotivamente nella percezione delle immagini di Wall.
Le altre dieci mostre sono curate da Francesco Zanot e comprendono ben cinquecento immagini. Ricostruendo un possibile itinerario, inizio dallo Spazio Carbonesi dove si trova l’artista britannica, classe 1985, Kelly O’ Brian. L’artista ricostruisce la storia della famiglia irlandese immigrata in Inghilterra, dalla parte delle donne, per generazioni addette alle pulizie fuori e dentro casa, toccando temi di genere, intimi e sociali, con un approccio che è stati definito “auto-etnografico”. Interessante l’installazione con l’uso di oggetti d’interni casalinghi come tende o tovaglie ricamate su un tavolino, talvolta ironico l’approccio al tema con la fotografia e il video, precisa dal punto di vista documentario la restituzione storica.
A Palazzo Vizzani il dominicano Alejandro Cartagena (1977) con A Small Guide for Homeownership ci guida in una ricerca che dura da tredici anni sulla periferia di Monterrey in Messico. La mostra, esposta in modo scenografico, con foto su stoffe che pendono dal soffitto, decostruisce il mito del possesso della casa, pubblicizzato attraverso cataloghi di vendita di stile statunitense, attraverso l’approfondimento dei problemi legati alla speculazione edilizia, alla costruzione selvaggia priva di piani urbanistici integrati, che fanno nascere casupole in serie in un deserto di infrastrutture. L’artista evidenzia l’inesistenza ad esempio di sistemi di trasporto che collegano gli abitanti dei quartieri periferici con i centri di lavoro in città e approfondisce la catastrofica conseguenza socio-economica che sfocia nella crescita della violenza e del traffico della droga.
Nella Pinacoteca Nazionale Ursula Schulz-Dornburg (Germania, 1938) coniuga in maniera classica ed elegante il tema della casa riprendendo in varie parti del mondo case di legno come nel Bosforo (le ultime rimaste dopo gli epici incendi di Istanbul), case su canne in Iraq, altre più robuste in altri paesi del mondo come Georgia, Russia, Olanda ecc. Al Collegio Venturoli, dove sono ospitate tre mostre, troviamo il fotografo svedese Mikael Olsson (1969) che riprende tra il 2000 e il 2006 le case dell’architetto e designer modernista Bruno Mathsson, costruite negli anni Cinquanta e Sessanta e immerse nel verde. Le case, prive di gerarchie di spazi interni, con un trasparente dialogo tra esterno e interno, sono riprese da fotografie che restituiscono atmosfere e situazioni enigmatiche più che costituire una piatta restituzione razionale.
Il fotografo più giovane del gruppo è il sudafricano Vuyo Mabheka (1999) che con Popihuise, che nella lingua afrikaans significa casa di bambola, si riferisce in maniera giocosa a una situazione intima di sofferenza e sradicamento, con i vari traslochi dell’infanzia, mentre riflette anche una situazione collettiva di precarietà. Si tratta di disegni vivacissimi abitati da collage in cui i personaggi sono tratti da fotografie familiari che si ripetono da disegno a disegno. Infine My Dreamhouse is not a house della fotografa austriaca Julia Gaisbacher (1983) testimonia con fotografie e video il progetto di architettura radicale del complesso residenziale di Gerlitzgründe di cinquant’anni fa, in cui i futuri abitanti erano stati chiamati a collaborare nella costruzione delle proprie case dall’architetto Eilfried Huth, creando così un solido gruppo comunitario basato sull’amicizia e la solidarietà.
A Palazzo Bentivoglio il fotografo rumeno Matej Bejenaru (1963) documenta con il progetto Prut la trasformazione dei villaggi rurali lungo il fiume Prut, confine naturale tra la Romania e la Moldavia. La Romania, parte dell’Europa dal 2007, ha subito un’accelerazione economica negli ultimi anni che ha mutato l’assetto socio-economico del paese. Tuttavia, il tempo sembra scorrere ancora lento sulle due rive del fiume con antiche case, abitudini e volti di una società in transizione. Il fotografo ha raccolto finora 1500 immagini analogiche, che sviluppa lui stesso nel suo laboratorio. Attento alla costruzione dell’immagine, ai rapporti morfologici della fotografia, Bejenaru parla di uno stile visivo che studia gli equilibri formali della pittura. Il fotografo quindi contempera la funzione e la tradizione della fotografia come documento alla fotografia come oggetto con le sue regole semantiche e sintattiche.
Sempre a Palazzo Bentivoglio, incontriamo la mostra Looking for Palestine di Forensic Architecture, centro di ricerca nato all’interno della Goldsmith University, il cui nume tutelare è Eyal Weizman e che indaga sulle violazioni dei diritti umani commesse da stati, forze di polizia, aziende. Il titolo prende a prestito il titolo del poema del palestinese Mosab Abu Toha e introduce alla ricerca e ricostruzione di un villaggio palestinese scomparso: al-Dawayima, raso al suolo durante la Nakba, la distruzione operata dall’esercito sionista all’indomani dell’occupazione nel 1947-1948. La ricostruzione dei luoghi e quella delle stragi viene fatta attraverso varie metodologie e dispositivi: materiali storici d’archivio, “mappe della memoria” ricostruite attraverso testimonianze di sopravvissuti e ricostruzioni attraverso tecnologie digitali. La Nakba si collega al genocidio di Gaza, di cui vengono riportati, attraverso fotografie e video, momenti topici e surreali come i foglietti lanciati dagli aerei con gli ordini di evacuazione dell’esercito israeliano.
Alla Fondazione del Monte, la mostra Microcosmo Sinigo di Sisto Sisti (1906-1981) ritrae lo stabilimento chimico e il villaggio aziendale della Montecatini a Sinigo (Merano) costruiti nel 1924-28. L’operaio specializzato e fotografo autodidatta, figura impegnata e animatore culturale, diventa il testimone privilegiato di un mondo e di un’epoca, ritraendo spazi di lavoro, momenti intimi o pubblici di un’intera comunità.
Infine al MAMBO, Quarta Casa di Moira Ricci (1977) è la prima retrospettiva dedicata all’artista e comprende lavori realizzati in venticinque anni. La mostra, che si apre con il calco del suo corpo su cui si snodano strade, case e monumenti oltre a una macchinina con la telecamera, anticipa tutto il lavoro successivo dell’artista, che interseca il sé, la propria storia, la propria autobiografia in rapporto alla casa e al tessuto familiare con l’esterno, la società e i suoi luoghi. L’indagine del territorio d’origine, la Maremma toscana, è evocata attraverso i luoghi, personaggi, miti popolari stralunati. La mostra rivela un’artista intensa, profonda, capace di coniugare in modo anche scanzonato temi come l’appartenenza, la perdita, l’identità personale e collettiva.
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