Come ha insegnato Heidegger, il pregiudizio è strutturale del nostro essere-nel-mondo. Dunque, avendo sottomano un volume firmato da Eugenio Riccòmini (con l’accento sulla O, mi raccomando), soprintendente in quattro città italiane, che sceglie un sottotitolo con otto sostantivi, beh ci si attende che sia di una noia devastante. Invece il libro è sintetico, riccamente illustrato e di agile lettura.
Si parte con una breve analisi dell’evento cultural-artistico, senza però scadere nel moralismo. Le osservazioni sono pungenti, dalla scelta “pubblicitaria” del titolo e del claim (ricordate il recente Caravaggio milanese?) ai cataloghi-monster con saggi di un’erudizione esasperata, fino alla pletora di magliette-spillette-cartoline. E tuttavia, se spesso proprio quelle mostre non sono esempi di rigore scientifico, secondo l’autore hanno la virtù di avvicinare gli spettatori ai musei e alle gallerie private. Ma anche in questo caso abbiamo il rovescio della medaglia: se questi ultimi spazi si massificano, è necessario rimodularli per soddisfare –senza divenire servili- le esigenze del “nuovo” pubblico. In ciò l’Italia non è esattamente in cima alle classifiche, mentre secondo Riccòmini paesi come la Francia hanno saputo muoversi con maggiore tempestività e organizzazione.
Dopo questa premessa generale, e proprio per venire in aiuto allo spettatore “medio” col naso all’insù di fronte a Fragonard o Paolo Uccello, l’ex soprintendente si esibisce in un outing inaspettato. La questione è nientemeno “che cos’è un’opera d’arte?” Ecco dunque svelato l’arcano del titolo: cercar la risposta è come andare a caccia di farfalle. Perché l’opera d’arte è svincolata dal
Così siamo catapultati dall’altra parte della barricata o, meglio, dalla stessa parte ma con un ruolo diverso. Siamo dal lato dell’artista, che oscilla “tra la fedeltà ottica a ciò che si vede, e il gusto per ciò che si sta facendo”. Ha dunque inizio una panoramica, anzi una cavalcata attraverso i secoli, sempre fra i due corni della questione. Ci sono le opere che possono essere agilmente ricondotte a forme geometriche, senza per questo dover necessariamente rinunciare alla mimesis; oppure l’artista affascinato dall’opera che sta realizzando e nella quale si cala a corpo morto (nel frattempo si scopre che il taglio di Fontana è stato anticipato da Raffaello), succube della propria “rapacità ottica”.
La conclusione? Nessuna in particolare, se non l’invito a frequentare i luoghi dell’arte, magari non deputati, a osservare con attenzione e senza imbarazzi. Tanto chi si fregia di titoli altisonanti è anch’egli a caccia di farfalle.
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