Privilegiare il colore come filo conduttore di un’indagine sull’arte del Novecento può sembrare una scelta fin troppo generica, quando non banale o, peggio, riduttiva. Specie nel confronto con i fortunati titoli pubblicati da Boatto nella medesima collana “Grandi opere” dell’editore Laterza, sulla
Pop Art (già alla quinta edizione), sull’
Eros mediterraneo e sull’autoritratto d’artista in età moderna (
Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol): tutte articolate indagini in cui storia dell’arte e storia della cultura tessevano un dialogo tanto fitto quanto generoso d’inedite aperture su ragioni, scelte e qualità di alcuni fra i più significativi momenti della ricerca artistica degli ultimi due secoli.
In questo ultimo titolo sul colore, invece, l’assunto di partenza è desunto dall’osservazione della più ordinaria quotidianità; e quando lo spunto non è dettato da un aneddoto – le
paillette e i lustrini dell’avanspettacolo televisivo, il
total black degli addetti ai lavori nel mondo dell’arte, l’arancione degli abiti esposti nella vetrina sotto casa dell’autore – rimane comunque sul piano della cosiddetta “cultura generale” la maggior parte delle considerazioni espresse in sostegno della tesi di fondo.
E la tesi è la seguente:
la nostra percezione del colore è oggi radicalmente mutata rispetto al passato, nel passaggio all’era dei colori artificiali e al dominio di una produzione industriale – e digitale, nelle ultime decadi – che ci ha allontanato da una comprensione autentica del fatto cromatico. Si tratta di una distanza in cui l’arte del Novecento giocherebbe, secondo Boatto, un ruolo fondamentale, di riconciliazione e quasi di risarcimento, rispetto a questa cesura netta. Come in un percorso a ritroso, allora, in cui il colore in tubetto e il pigmento artificiale verrebbero ad assumere una funzione d’indirizzo dello sguardo. A beneficio, paradossalmente, di una riconquistata dimensione istintiva ed emozionale di comunicazione col mondo naturale e di consapevole smascheramento degli inganni d’un presente metropolitano eccessivamente tecnologizzato.
Le illustrazioni del libro apparecchiano così un’elegante sequenza d’immagini
ton sur ton, la cui lettura – per quanto densa e affascinante, nel registro di una prosa tanto semplice quanto ricercata, come da consuetudine del resto per la scrittura dell’autore – è condotta però a discapito di più puntuali ancoraggi ai contesti storici e culturali. Per alcuni artisti (
Malevic,
Kandinsky) sono spesso citati gli scritti di poetica, ma si tratta per lo più di proposizioni molto note, il cui richiamo sembra scemare nella banalizzazione un po’ manualistica e
passepartout dell’opinione corrente.
Allo stesso modo,
gli esempi addotti pescano fra pochissime opzioni, con nomi ricorrenti nei diversi capitoli/colori attraverso cui il volume scorre l’intero spettro solare, fra avanguardie storiche e immediato secondo dopoguerra, con alcuni sconfinamenti negli inoltrati anni ‘60 e nei primi ‘80 della Transavanguardia, in un affratellamento di significazioni che finisce con inibire ogni sfumatura o “sbavatura” non in linea.
Può accadere così, ad esempio, che
Burri si ritrovi indifferentemente nel “Bianco” e nel “Nero”, con l’inconveniente di una sostanziale sovrapposizione di senso, in cui ora “
il silenzio è scaduto in afasia, in questa forma di afasia cronica” – è il caso del
Tutto nero del 1956 – ora il
Bianco cretto C1 del 1973 è “
la siccità, l’arsura, il biancore, il deserto non solo fisico ma anche spirituale”.
La conclusione sanziona ogni distinguo. “
Il campionario invita alla ripetizione” e “
dispone di tutte le possibilità fino al punto di esaurirle”.