Categorie: Libri ed editoria

READING ROOM

di - 21 Marzo 2017
La densa esperienza che Roberto Gramiccia racchiude nel suo ultimo libro è contenuta nel nucleo centrale del concetto di fragilità. Attorno ad esso ruotano, intrecciandosi, le diverse orbite del suo impegno di uomo e ricercatore: la dimensione etica-sociale e scientifica di medico, quella politica e culturale, in cui, già da diversi anni, l’autore di Elogio della fragilità si è distinto per una spiccata passione verso il mondo dell’arte.
Uscito per i tipi di Mimesis il libro, pur nella corposità della materia, si offre alla lettura con quella caratteristica scorrevolezza che appartiene alla parola che nasce dal vissuto. Un affresco di “concetti-esperienza” che affiorano con limpidezza sancendo la sostanziale differenza tra la parola che sorge da astratte speculazioni e quelle che testimoniano una reale partecipazione agli eventi della vita.
Si direbbe che, sin dai primi capitoli, Gramiccia lavori con “forti immagini”, tratteggiando alcuni angoscianti episodi di vita senza indulgere a facili autocompiacimenti. Essi, piuttosto, risultano funzionali al nucleo centrale del discorso: ovvero l’esperienza, comune a tutti gli uomini, del sentirsi abbandonati, dell’angoscia che, già dai primi grumi di civiltà, si presenta sotto forma di sgomento, di thauma, come indicato da Aristotele, di profondo annichilimento di fronte alla potenza terribile della natura. Fino a giungere al  rapido cammino che porta l’uomo alla presa di coscienza della ineludibile finitudine, alla base della quale c’è quell’inquietante sentire per il quale Heidegger (non citato dall’autore)  coniò il termine di “gettatezza”.

Gramiccia osserva in se stesso e negli altri i limiti e le paure della nostra esistenza. Il suo è, sotto certi aspetti, un viaggio dantesco tra l’umana gente. In cui, forse inconsciamente, elegge a magister, guida spirituale, proprio l’arte. Ovviamente quella con la “a” maiuscola. In tutto ciò il contatto diretto con la fragilità è fondamentale e, in un certo senso, tappa obbligata, per qualsiasi progetto di risalita o, se si vuole, di rinascita: come medico, come uomo impegnato politicamente (per un lungo periodo), come appassionato di arte in rapporto con gli artisti. E per quanto riguarda proprio l’arte, questa grande via di conoscenza, appunto, Gramiccia la analizza in rapporto alla medicina: un’analisi di questa “strana coppia”, come lui stesso la definisce, dalle molteplici analogie, che lo porta a osservare la fonte delle dinamiche della creatività artistica. Lo sguardo è rivolto – precisa l’autore –  a quegli artisti che “per definizione non possono non essere sottoposti a un’altra usura. Parlo degli artisti veri, non dei mestieranti. Per definizione essi posseggono, come i poeti e i musicisti, una spiccata sensibilità che sempre è usurante. È proprio questa qualità a renderli più vulnerabili degli altri. Una specie di caducità costitutiva e strutturale.” Aggiungendo poi che “… la cosa che ha reso la mia osservazione stimolante ed istruttiva, perché suscettibile di astrazioni progressive che vanno ben oltre lo specifico, è la constatazione del nesso che esiste fra la fragilità di molte di queste creature e la loro capacità di produrre capolavori. Una dialettica degli opposti di folgorante evidenza.”

E dunque per sfuggire alla dimensione annichilente e rinunciataria dell’esistenza all’uomo non resta altro che pensarsi in una prospettiva d’attacco (come fu, fino agli ultimi suoi giorni, quella del grande Carl Marx, citato in prefazione da Michele Prospero): l’unica difesa possibile all’interno di un corpo sociale malato affetto dalla febbre di un neoliberismo sfrenato e prevaricante, in cui l’unico dominus è rappresentato dal danaro. Nonostante da decenni si parli di perdita di punti di riferimento forti, di fine delle narrazioni al punto che oggi il concetto di “rivoluzione” fa sorridere, ciò non toglie – ci dice Gramiccia – che non siano ancora possibili percorsi di riscatto, di presa di coscienza delle fragilità sociali e culturali condivise; compresa la presa di coscienza della sfera dell’arte il cui “tempio” è stato occupato da mercanti e speculatori senza scrupoli. Come per dire che è venuto il tempo di guardare in faccia l’assurda inconsistenza di molta arte che circola sostenuta esclusivamente da interessi di parte, da banche o case d’aste lontane da un vero interesse culturale, preoccupate soltanto di indossare i panni di una autorevolezza apparente.
Per Roberto Gramiccia l’amore per l’arte, come quella per Scipione, (protagonista del gruppo che Longhi denominò Scuola di via Cavour, poi Scuola Romana, con Mario Mafai e Antonietta Raphael) per Tano Festa, Pizzi Cannella o Lucilla Catania, Giacinto Cerone e Franco Mulas, si esplica nella frequentazione e nella condivisione con gli artisti che, per Gramiccia, sono “colleghi” e dunque compagni di viaggio. Un viaggio in cui, attraverso la consapevolezza dell’incorreggibile asimmetria delle nostre fragilità e della nostra finitudine, non fa da ostacolo  quella ambizione smisurata dell’uomo che cerca di tirare fuori  il meglio da sé. E questo, particolare non trascurabile, si presenta come un modo per interpretare anche l’impegno politico.
Un consiglio spassionato, per la nostra attuale classe politica che brancola  nell’infinito the waste land dell’inconcludenza, potrebbe essere quello di leggere questo saggio; quanto meno, il capitolo “Destra Sinistra e Fragilità”.
Ernesto Jannini

Roberto Gramiccia, Elogio della fragilità.
Prefazione di Michele Prospero – Postfazione di Lorenzo Romito.
Edizioni Mimesis, 2016
Euro 12,00
ISBN 978-88-5753-649-1

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