Non solo per fashion addicted. Chi pensa che la moda sia vacua apparenza potrebbe ricredersi leggendo questo trattato, sublime e sovversivo. L’impianto – anche grafico – evoca quello del Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo, basato sul dibattito e sulla tessitura di un senso attraverso giustapposizioni. Il significante è perfettamente coerente con il significato: La vita delle forme, il libro scritto a quattro mani da Emanuele Coccia e Alessandro Michele per Harper Collins (2024) – in un rimando continuo fra i commenti del primo e la voce del secondo – celebra il potere demiurgico della moda. Nel Timeo, Platone descrive il demiurgo come un essere divino, un artefice universale, che conferisce il suo soffio vitale a una materia altrimenti informe. Ebbene, anche nella moda sembrerebbe possibile attuare una divinazione delle forme, in cui dettagli come un fiocco intorno al collo o un’iniziale su un tessuto trasformano la materia in vita.
Perché la vita è ovunque: ogni forma vive, che sia una pianta, un animale o un artefatto umano. E tutte le vite parlano, hanno qualcosa da dire. Così, come un rabdomante, Alessandro Michele ascolta “le cose sussurrate dagli oggetti”, riverberi della nostra vita fuori dal corpo. Laddove altri vedono solo geometrie e colori, per lo stilista vestiti e accessori possono veicolare discorsi che provengono simultaneamente dal passato e dal futuro, quasi in una sorta di nuovo sciamanesimo. Ecco quindi che gli abiti diventano lo strumento ideale per trasformare la vita in qualcosa che è cesellato dall’arte, aprendo a una libertà di espressione sconfinata, incomparabilmente più ampia di quella concessa da qualsiasi altra pratica artistica. Attraverso gli abiti, non solo definiamo la nostra apparenza, ma plasmiamo la nostra esistenza in funzione dei nostri desideri, dei nostri umori, della nostra identità psichica più profonda, al di là dell’io anagrafico e perfino della nostra anatomia, in un gioco di potenzialità praticamente infinito. Non per nulla l’estetica di Alessandro Michele ha sempre celebrato la gender fluidity.
Il pensiero non è più qualcosa di astratto, ma che permette al corpo di liberarsi. Pensare non significa soltanto avere delle parole in testa, ma tradurle in colori e forme sulla propria pelle, per conferire identità sempre nuove e diverse alla nostra vita. Il corpo stesso diventa uno spazio di riflessione e trasformazione, non è più l’opposto del pensiero. In tal senso, la moda è l’arte più radicale del nostro secolo, l’unica ad aver realizzato la scommessa delle avanguardie dell’inizio del Novecento, quella di far coincidere arte e vita. Gli abiti, infatti, sono artefatti universali e comuni, usati da tutti in qualsiasi momento, senza distinzioni di classe, genere, appartenenza etnica. Indossare un vestito sovverte il rapporto tradizionale con l’opera d’arte: non è più un atto contemplativo in un museo, una fruizione separata dal nostro quotidiano. La moda è a stretto contatto con noi, aderisce al nostro corpo, scolpisce la nostra identità e diventa parte integrante del nostro vissuto. Gli abiti sono come universi paralleli, in una continua ricerca verso un ideale di bellezza. Non sono la nostra carta d’identità, al contrario sanciscono l’impossibilità di ridurci a una singola figura, per inventarne altre in un continuo processo creativo verso tutti i nostri modi d’essere, attraverso cui cerchiamo di comunicarci agli altri. Alessandro Michele rivela: «Non lavoro quasi mai pensando a un singolo abito: sono immediatamente immerso in una narrazione in cui sono coinvolti numerosi personaggi. È come scrivere la sceneggiatura di un film: progressivamente emergono i volti, le vite possibili, le atmosfere, e le relazioni che legano i personaggi tra loro.» È anche per questo che, secondo gli autori (Coccia, peraltro, è professore di filosofia a Parigi), la moda è l’arte più filosofica e concettuale che esista. E al tempo stesso è anche la più metafisica, poiché contraddice il luogo comune secondo cui la cultura occidentale ridurrebbe tutto a mero materialismo, donde il riferimento alla “filosofia del reincanto”, che nella società contemporanea è subentrata alla perdita del senso del magico teorizzata da Max Weber nel 1917. Nel valutare l’opera di Alessandro Michele, attualmente nuovo direttore creativo della Maison Valentino, non si può prescindere da tutto ciò. La sua estetica, immediatamente riconoscibile, è una visione ben precisa della vita e delle persone. Così come a suo tempo aveva rivoluzionato Gucci, ora si accinge a reinterpretare attraverso la propria sensibilità l’allure degli archivi storici di Valentino, apportando un contributo originale, con grande onestà intellettuale.
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La mia fotografia è intrisa di solitudine, bellezza e femminilità.