Il Novecento si è davvero concluso. Lo dimostrano i diversi tentativi di storicizzazione del secolo operati nei campi più disparati. Se dieci anni fa qualcuno, in Italia, avesse proposto la realizzazione di una mostra dedicata alle “cose”, alla produzione industriale, ai procedimenti di invenzione, alla produzione in serie, alla comunicazione in quanto tale -senza le declinazioni più marcatamente politico-ideologiche di movimenti come il Mac, o delle aggressioni pubblicitarie rotelliane- probabilmente i sorrisi di scherno sarebbero stati molti. Oggi no. Le iniziative realizzate in questo senso proliferano e piacciono. E non ad un pubblico raffinato e feticista, bensì a quello vasto e “televisizzato”, che l’arte contemporanea vorrebbe tanto raggiungere. Perché l’oggetto d’uso, nella sua quotidianità, permette a chiunque di riconoscersi: l’anziano sospirando ricorda la sua prima lambretta e il primo bacio, mentre il giovane intellettuale può chiedersi perché mai non sia nato cinquant’anni prima.
Ma la domanda più importante riguarda il nostro cambiamento. E’ mutato il rapporto di acquisto, fruizione e consumo degli oggetti (e dimentichiamoci la bufala Anni Novanta della cosa come status symbol, assolutamente inattuale, in quanto oggi lo status è il possesso effimero), caratterizzato da una certa “sbadatezza”, che ha trasformato lo shopping in un passatempo, invece che un diversivo. E l’industria si scrolla di dosso ogni demonizzazione, per essere l’incarnazione felice di un miracolo economico che tarda a venire. Queste sono solo alcune delle numerose considerazioni che la mostra L’estasi
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