Un bambino capisce gli uomini prima di capirne le parole. E tanto più se costretto a viaggiare di città in città , di paese in paese, di lingua in lingua. Attraverso il suo sguardo capisce l’essenziale. Sa che l’allargarsi di un sorriso, il gonfiarsi degli occhi o lo scivolare delle lacrime rimangono sempre gli stessi, su ogni volto. Dappertutto. E hanno lo stesso significato. Milano, Roma, Parigi, New York, Los Angeles: cinque città , tre lingue, migliaia di chilometri di distanza nei suoi primi 13 anni di vita. Forse è già qui che inizia il lungo cammino della fotografia di Elliott Erwitt (Parigi, 1928), prima che cominciasse a guadagnarsi da vivere lavorando in camera oscura a 16 anni, prima di aver scattato una sola foto, nel suo sguardo di bambino che osserva un mondo privo di parole. Come ricorda lui stesso, “quando uno si ritrova di colpo in mezzo ad
estranei che blaterano in una lingua che non capisce, deve usare gli
occhi. E che cosa vede? Vede esseri umani comici, tristi, felici: esseri umani più o meno come lui”.
Al centro Forma sono esposti alcuni dei suoi ritratti e autoritratti: altri esseri umani, più o meno come noi. Fidel Castro ha lo sguardo di un ragazzino, Marilyn Monroe è sorniona con un copione tra le mani, Robert Frank è accoccolato tenerissimo accanto al figlio in fasce, Jacqueline Kennedy cammina straziata e assente al funerale del marito. Sono alcuni scatti di uno dei più grandi fotografi del Novecento alle prese con uno dei suoi temi preferiti: l’uomo e le sue emozioni. Che siano star del cinema, intellettuali, uomini di potere o semplice gente di periferia, Erwitt sembra sempre interessato a farne emergere il lato più umano, usando la macchina fotografica come una “livella”, che smussa tutti gli angoli che si sovrappongono a ciò che è realmente fondamentale.
Tenero e commosso, ironico e divertente, Erwitt è un Chaplin della fotografia, interessato ai due risultati supremi dell’arte: far ridere e far piangere.
Perché, forse, è proprio qui l’essenziale, la cifra più semplice e più profonda di ciò che sono gli esseri umani. E per raggiungerla occorre la magia della macchina fotografica, il suo lasciar comparire le cose. Per Erwitt, il compito del fotografo deve risolversi nell’osservare la realtà : “si tratta di ciò che vedi, non di quello che crei” e chi scatta deve rispettare l’“eccezionale, meravigliosa e unica” peculiarità della fotografia. Deve lasciare che si ripeta il miracolo dell’istante in cui tutto si amalgama. Deve semplicemente riceverne il dono.
Quando si tratta di fare un ritratto, Erwitt ricorre ad alcuni trucchi del mestiere. Spesso porta un clacson da bicicletta nascosto in tasca, che preme per attirare l’attenzione. Quasi sempre, quel “popi-popi” porta alla coscienza di entrambi, fotografo e fotografato, di star facendo qualcosa di buffo e divertente. E così la tensione si scioglie. La fotografia è un gioco, ma ogni gioco si deve giocare seriamente. Per capirlo basta guardare con attenzione gli autoritratti di Erwitt. Il segreto della sua delicata ironia, dell’emozionante leggerezza del suo tocco è tutto nell’espressione dei suoi occhi. Dove ad un’aria divertita, si unisce una sottile malinconia.
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