Il tempo è un organo. Un muscolo dotato di funzioni chimiche e fisiologiche. Il tempo s’impianta sottocutaneo, cambiando posizione, poco prima o poco fuori dalla luce degli occhi. Un fascio di contrazioni e stiramenti che modifica il flusso vitale a seconda della posizione, dell’incastro in cui si adagia. Certe volte il tempo devasta, altre volte contamina e interagisce sbandando, oppure affrettando, le percezioni del corpo umano. E non è la parola a dargli linguaggio, a brindare alla Sua, alla sbadata memoria. Ma è l’immagine che traslittera e a recide il tempo in linee, affilandone i contorni.
Maggie Cardelùs (Alexandria, USA, 1962; vive a Milano) in questa nuova personale milanese modifica gli usi del tempo attraverso l’immagine e le sue, proprie, pulsazioni. Looking for time si trasforma allora in un percorso iniziatico e propiziatorio nel verso della memoria. Un sentiero che riprende la vita dalla vita, quella conduzione familiare che parte dal quotidiano intimo dell’artista stessa. Un album fotografico che non scade, nemmeno un secondo -è proprio il caso di dirlo- nel registro del mieloso e del nostalgico. Looking for time è come un contenitore spalancato, un recipiente che ingloba tecniche e supporti artistici differenti. Un grumo compatto di materiale in prospettiva. Un condensato nel quale non è sempre facile distinguere quando l’immagine è in lotta, addosso al tempo, e quando invece è il ritmo che passa e prende forma.
Il video che dà il nome a questa personale è la ripresa passo-a-passo di una fotografia fatta dall’artista. Un interno domestico riflesso sulla lastra argentata di uno specchio. Il gioco di rimandi tra le diverse superfici fa sbiadire l’espressione e i contorni delle cose, composte dal vivo con la stessa pesantezza di uno still life pittorico. Il video che riprende la fotografia è girato interamente su quest’immagine. Un primo piano infinito che indugia come un segugio, annusando ogni particolare, spingendo l’occhio di chi osserva fin dentro l’affilata diegesi dello scatto. L’obiettivo della macchina da presa si sposta mappando con lunghi piani sequenza e zoomate imp
Nella stessa sala della proiezione è esposto un vaso, una brocca di creta ricoperta da una patina argentea e riflettente, un’altra metafora del tempo e dei suoi sfridi. Un contenitore come un cesto di serpenti che si avvolge su se stesso senza interrompersi, a cominciare dalla base per poi concludersi nella ripresa dell’impugnatura. Più curiose, anche se di stampo marcatamente intimista, le installazioni nella sala separata dal corpo centrale della mostra (Zoo, age 10 e Mervyn, an expanding portrait). Zoo, age 10 è un montaggio video composto da 18.000 fotografie scattate al ragazzino protagonista della serie durante 10 anni di vita, dalla nascita fino al presente. L’intera durata del filmato arriva a 40 minuti, ma il proiettore, che riproduce in maniera causale l’ordine dell’album fotografico, spara le immagini alla velocità ipnotica di 12 fotogrammi al secondo. Di grande pathos risulta soprattutto la colonna sonora d’accompagnamento, inserita in stereo e in loop. Una versione rielaborata del primo movimento della Pastorale di Beethoven. La melodia cupa marca le immagini con accenti timbrici gravi, sottolineando involontariamente alcuni passaggi fotografici piuttosto che altri, sollevando allo stesso momento retaggi rimossi.
ginevra bria
mostra visitata il 5 aprile 2007
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