Tonalità cromatiche mescolate con gusto seduttivo: colpiscono le luci dosate sui volti, che alleggeriscono i gesti dei corpi, cogliendo i particolari espressivi degli occhi, della bocca; così le bambine di Mike Cockrill.
Scenari non particolarmente infuocati – piuttosto il contrario – mostrano, sembrerebbe, sesso e morte. Grace under Fire, Trophies, opere realizzate tra il 1999 e il 2001, dove i soggetti, dipinti in costume e/o con abiti succinti, sono intenti ad ammazzare. Puntano clowns raffigurati senza volto, con la testa tra le mani, gli occhi bendati, le mani giunte, i denti intirizziti dal momento, l’ultimo.
Dipinge una serie di acquarelli, creando, appunto, una Installation view (at Jack Tilton Gallery, NY, 2000) Nicole Eisenmann. Attraverso un puzzle di tavole leggere, su carte anche fotografiche, l’artista rappresenta immagini erotizzanti, ironiche, forti; a volte utilizza le parole combinate a fumetto, formulando disegni che visualizzano l’importanza delle differenze tra i sessi.
La figurazione prosegue con i lavori di Kojo Griffin; in particolare Untitled (Man on bead, woman putting on clothes), 2001, dove sembra esserci la voglia di dare un volto al senso di colpa: visi di uomini e donne parzialmente trasformati in protuberanze proboscidali e becchi, sembrano autocommiserare la propria tristezza.
Con le metamorfosi e le mescolanze, sul piano però dei materiali scultorei, lavora anche David Humphrey che crea in particolare degli ibridi scultorei di animali, a partire da porcellane trovate.
Julia Jacquette guarda invece gli anni ’50, alle pose dei cartelloni, traducendo situazioni emotive, confidenziali, intime, mentre Kurt Kauper ripropone il mito dell’attore americano con un nudo stilizzato, un viso, statue di Cary Grant (2001).
Le figurazioni dei colori accentuano sempre più espressività, matericità; dalle quantità coloristiche e accesissime dei lavori di James Albertson, alle situazioni esasperate dei lanci di Dennis Kardon (Stimulranting the Baby, 2000 e The Attention Getter, 1998), sino ad un’attenzione sempre più calamitante al perfetto estetico: quella per esempio di Sean Mellyn su medio/grandi dimensioni con i visi di due bambine, un bambino e tutta una serie di volti, coperti e in bianco e nero. Quanto, invece, ai lavori con i colori e le luci, Untitled (Nosejobs), 1998, e Wee, 2001; da segnalare l’effetto tridimensionale dato dalle ricostruzioni al plastico; nasi, sorrisi, occhi, lingua, sono metamorfizzati. Gli iper-spazi, le tele giganti per ampie pennellate, sono rappresentati da American Lion, 2000, di Steve Mumford. Colori perfettamente distribuiti, lucidi, calmi, attraenti; una fabbrica appena illuminata dal sole, una bestia in primo piano, si intravede. Con un passaggio del saggio critico di Jeanne Greenberg Rohatyn, si direbbe, anche noi ci lasciamo sedurre da queste immagini, sapendo in cuor nostro che sono delle falsità.
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