Tutti conoscono
The Americans. L’aspra critica sociale, l’attenta analisi politica, la lucida riflessione su un’inquietante idea di progresso: il nostro futuro non sarà meglio del nostro presente, anzi. La fotografia documentaria di
Walker Evans si vena di pessimismo, vacilla. Continua a raccontare, certo, ma è il soggetto a esser cambiato. Un’elegia che canta solitudine e individualismo.
Robert Frank (Zurigo, 1924; vive a New York e a Neuschottland) è amico dei Beat, ma è un po’ meno combattivo e ottimista. Così, quantomeno, traspare dal suo lavoro. Da quel
The Americans che ha segnato la sua storia e quella della fotografia contemporanea.
Della sua storia personale, di ciò che è avvenuto prima e dopo, si conosce poco.
The Americans ha finito per rappresentare, come metonimia, tutto Robert Frank. Oggi Milano racconta, con due differenti rassegne, la storia che ha preceduto e seguito la celebre pubblicazione.
Le opere in mostra a Cinisello, di cui molte inedite, parlano del prima. Si tratta di fotografie scattate a Parigi tra il 1949 e il 1952, negli anni successivi al trasferimento del fotografo negli Stati Uniti (avvenuto nel 1947). L’autore di queste immagini è un ragazzo di 25 anni, e si percepisce un modo di guardare ancora delicato e malleabile, parzialmente distante dagli anni della maturità. Molte sono le immagini del circo e quelle in cui compaiono fiori: emblemi, rispettivamente, di malinconia e delicatezza.
Questa è l’impressione che si ha percorrendo con lo sguardo la galleria di fotografie, poi d’improvviso qualcosa si blocca, stride, urta. Qualcosa che conosciamo, anzi, che riconosciamo. È lo sguardo di Frank. Quelle inquadrature apparentemente casuali che tagliano i soggetti e le persone, lasciando all’interno dell’immagine solo qualche porzione, qualche dettaglio, escludendo il resto. Dove, invece, tutto è intenzionale e il fotografo è ben cosciente di ciò che ha lasciato fuori. Frank sembra assorbire l’atmosfera bohèmien e talvolta romantica della città; poi, d’un tratto, la magia sembra spezzarsi, ed è allora che irrompe il fotografo che conosciamo, che prelude a ciò che diventerà.
A Palazzo Reale, una retrospettiva riunisce tutto Robert Frank, quello noto di
The Americans, il giovane fotografo, il cineasta, il maturo sperimentatore. Un periodo forse troppo lungo e complesso per essere adeguatamente sintetizzato in un’ottantina di opere. Si finisce per perdere il filo e la figura del fotografo non appare chiaramente delineata come dovrebbe. È la stessa personalità di Robert Frank, che, a dispetto delle riduzioni storiche, non è di facile inquadramento.
La sezione più interessante riguarda gli ultimi lavori fotografici dell’autore, ai quali ha lavorato nelle pause tra un film e l’altro. Sono opere che rivelano una sensibilità estremamente sofferta, di un’artista che non concepisce più l’arte come denuncia sociale, ma come espressione del proprio sentire personale. Il confine tra arte e vita diventa estremamente labile. Le fotografie riportano i segni di chi ha sofferto molto (e ha assistito alla perdita di entrambi i propri figli): graffi, segni, scritte, grida. Forse l’immagine da sola non basta più.
Tuttavia, alcune opere lasciano ancora spazio alla speranza. Che l’arte sia, in qualche modo, anche una terapia. Un modo per buttar fuori il dolore che si ha dentro.