Con una serie di fotografie, scatti dai colori falsati, e con la proiezione frammentaria di due video dall’alto contenuto simbolico,
Jen DeNike (Norwalk, 1971; vive a New York) costruisce la propria storia. Attraverso
Here Today Gone Tomorrow, prima personale milanese dell’artista americana, si rivive un racconto fatto di rituali camuffati e di finto patriottismo made in Usa. Gli adolescenti, soggetti protagonisti di anti-eroismo, diventano volontari nazionalisti d’immagini che li ritraggono padroni di un solo territorio: dominatori cioè della sola espressione che appartiene loro, espressione delimitata da stolidi dilemmi morali.
L’uomo, infatti, in quanto portatore di segnali, è il tramite che accompagna il sistema linguistico e la politica del messaggio inviato da DeNike. Come un esercito che rifiuta la propria uniforme, i personaggi immortalati dall’artista non sono altro che corpi-leggio, inseriti come misuratori di presenza umana all’interno delle subculture e delle tradizioni di un popolo che ha scelto la convenzione come metodo di aderenza a un’inconscia, proibita riottosità.
Ben visibile, questo concetto, nel curatissimo video
Flag Girls, l’artista spiega che l’idea del lavoro ha origine da una cartolina del 1918, ritrovata per caso, che ritrae sei giovani donne avvolte nella bandiera coloniale americana. Durante il girato, DeNike ricrea la scena, ma nella sua versione le ragazze, mentre cantano l’inno nazionale, si liberano dall’avvoltolamento scenografico della bandiera, uscendo dalla stoffa per poi rimanere nude sul palco.
Un altro video esposto in galleria, invece,
Gold Star, trae ispirazione da un antico rituale pagano scandinavo, tutt’oggi celebrato: durante le prime settimane di dicembre, infatti, i ragazzi viaggiano porta a porta, indossando vesti bianche e lunghi cappelli a punta ornati da tre stelle dorate, cantando un’antica canzone apotropaica che si narra sia capace di portare luce nella dimensione a venire dell’inverno che oscura il cielo. In entrambe le pellicole, le pose senza espressione dei performer distolgono lo spettatore dalle atmosfere preconfezionate e claustrofobiche di un mondo, quello americano, senza storia.
Presente anche il lavoro
What Do You Believe In. Sono diciotto stampe di piccolo formato nelle quali la frase che dà il titolo all’opera è espressa attraverso le
signal flag, quelle bandierine quadrate usate come un corpo in bianco e nero nel codice visuale in marina. Sono poi in mostra altre due fotografie di piccole dimensioni, appartenenti alla serie
Circle Around a Stars. In queste, invece, le stelle apposte in ambienti naturali, in stretta relazione con corpi umani sommersi nell’acqua, sono sempre in bilico tra la coscienza e la morte.
Nonostante i lavori presenti non siano stati esposti solo in questa occasione, il sentimento chiaro è quello di un’indeterminatezza e di un’incertezza percettiva che amalgama i contenuti dei supporti, lasciando intendere un percorso formale ancora spalancato.