La mostra ci accoglie con un’enorme installazione di Bjorn Dahlem : Orgasmodrom . Tre monitor in una composizione totemica trasmettono una porzione di cielo che si ritaglia tra le fronde di alberi e al centro una luce, un’esplosione galattica. Un’immagine non spettacolare, contenuta nel suo bagliore.
Quest’anima è al centro di una struttura che ricorda gli igloo di Mario Merz, uno scheletro in legno rivestito di neon. Lo spazio è raccolto e percorribile.
L’Orgasmodrom, è un raccoglitore di energia, una scarica di vitalità. Il concetto di questa invenzione si basa sulla teoria dell’energia orgonica di Wilhelm Reich, discepolo di Sigmund Freud. La Orgonomia è, più propriamente, lo studio scientifico dell’orgone, energia presente negli esseri viventi, nella terra e nell’atmosfera, anche descritta come un’energia pre-atomica, priva di massa.
Reich sviluppò teorie sesso-economiche derivate dallo studio della funzione genitale biologica indipendente dalla procreazione, indirizzate a mantenere la predominanza della pulsione primaria -desiderio di amplesso- sulle pulsioni secondarie, per stabilire la rilevanza della funzione genitale per la salute o la malattia psichica e fisica. Secondo tali studi, la repressione sessuale, diventa, più banalmente, la causa delle nevrosi e malattie psichiche.
Con lo studio sulla funzione dell’orgasmo, nel 1934, Reich elaborò la formula – “tensione – carica – scarica – distensione ” e si spinse a misurare con l’oscilloscopio i fenomeni bioelettrici causati dalle sensazioni di piacere (distensione) e angoscia (contrazione) .
Per dimostrare ciò Reich si introdusse in una gabbia Faraday per isolarsi dalle energie esterne, dopo mezz’ora il buio venne sostituito da “bagliori indefinibili irritanti, come lenti vapori di nebbia grigioazzurra”, che si mossero a “onda giroscopica” e a volte si attrassero. Ricoprendo la cabina di metallo (gabbia di Faraday) con materiale organico Reich ottenne appunto un accumulo di energia misurabile.
Il tentativo dell’artista è di farci rivivere questo tentativo di essere al centro del mondo, di farci sentire vivi e parte di un tutto.
Accanto alla potenza della vita, però, Dahlem contrappone un elemento funereo: un lampadario dalla luce fioca che pende come un cappio dal soffitto, pesante, in velluto nero che vuole ricordare lo stretto legame tra vita e morte. Binomio inscindibile ricorrente nel suo lavoro, che ritroviamo nella seconda opera che l’artista presenta in questa collettiva. Con grande capacità compositiva,
Il lavoro di Dalhem si confronta spesso con teorie fisiche e scientifiche, ma la sua ricerca si concentra sulle utopie o sugli esperimenti che non hanno avuto un seguito; le sue opere sono il tentativo di riaprire un dibattito o di ridicolizzare e sottolineare l’inutilità della ricerca scientifica?
Al piano superiore, quattro grandi tele e un intervento su parete ci introducono al lavoro di Dirk Skreber, classe 1961. L’artista tedesco rappresenta l’immaginario proprio della cronaca nera. Skreber trae ispirazione dalle immagini che i giornali, la televisione e tutti i mezzi di informazione ci propinano quotidianamente, le trasforma e le riporta senza ambiguità su tela. Catastrofi, disastri naturali ed incidenti sono i suoi soggetti più comuni.
I temi variano, quindi, dalle esplosioni a fungo riportate in bianco e nero, come nelle immagini vecchie scolorite dal tempo, alle viste aeree di centrali nucleari alle piatte villette delle periferie americane.
Colori opachi, privi di sfumature e personalità si giustappongono su diversi piani; la composizione risulta piatta, quasi geometrica, soffocata nelle sue campiture di colore.
Ciò che interessa a Skreber non è la rappresentazione di un certo tipo di avvenimento o di una specifica forma di realtà ma, al contrario, la decostruzione di tali forme mantenendo però inalterato il nostro approccio ad esse.
Il suo lavoro è assolutamente impersonale, neutrale e sobrio, privo di apparenti ambiguità.
Sarà il suo uno sguardo ironico sulla curiosità che questi eventi suscitano sulla massa?
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