“La prima scultura che ho fatto, con un pezzo di corda a un po’ di filo, era il profilo di un solido rettangolare che poi ho sdraiato sul pavimento. È stato un atto casuale, ma subito mi è sembrato che spalancasse davanti a me un sacco di possibilità.” Nel 1986, è questo che scrive sulle proprie origini Fred Sandback (New York, 1943-2003), guardando ai suoi vent’anni di attività.
Per più di tre decadi lo scultore-filosofo newyorkese ha continuato a seguire i propri impulsi con determinazione, spremendone l’essenza, e creando lavori che a tutti gli effetti sembrano una raccolta di progetti d’architettura insoluti. Ogni scketch instaura una quasi-perfetta interdipendenza con lo spazio reale adibito ad accogliere lo studio delle linee. Quello spazio tridimensionale nel quale, ancora oggi, viene messo in opera lo schizzo, il progetto affidato prima alla carta e poi alla riproduzione. Inoltre un timbro, posto sempre nell’angolo in basso a destra dei disegni, ne segnala il verso e la paternità. Alle pareti della galleria vengono, in parte, realizzate alcune di queste suddivisioni. Suggestioni geometrico-prospettiche tracciate nei lavori di Sandback e riproposte attraverso l’installazione di fili di lana sospesi e tirati a regola nelle sale dell’esposizione.
Ogni laccio, ogni filo che rimbalza da una parete all’altra, accentua la relazione manifesta, anche se invisibile, tra lo spazio e la traccia degli oggetti che sono, o sono stati, in potenza di attraversarlo. Quegli oggetti anch’essi inesistenti che appaiono allo sguardo solo in virtù della materia costituita, oggetti plasmati dalla dimensione spaziotemporale, da quell’incantesimo del Vero che prima cattura e poi rivela.
Le sculture, cresciute dal loro stesso vuoto perché mai dotate di un proprio involucro, sono parti infinite e, allo stesso modo, tecnicamente incastrabili nel Piano. Sono un libero passaggio di stati, strati e livelli che, in continuazione, filtrano le stanze aperte al pubblico.
Ogni filo di lana, attraverso le ombre e le luci e i colori che riflette, mette in risalto la trasformazione della percezione oculare nei confronti del vuoto e dei suoi ritagli. Questo tipo di lavoro, quasi lessicale, più che concettuale, assomiglia, in linea d’aria alle moltiplicazioni modulari apportate dai californiani Robert Irwin (Long Beach, 1928) e James Turrell (Los Angeles, 1943). La costruzione di spazi piani, però, da parte di Sandback rimane un riverbero, uno schema di presenza che gioca con un Interno ed un Esterno in “crisi di massa”. Forse per questo, ogni sotto-struttura in esposizione risulta di per sé sottesa, appesa al e dal filo (a volte rosso, altre giallo, altre ancora blu, oppure nero) che la profila.
Peccato, soltanto, per quanto riguarda l’allestimento, la pavimentazione in cemento vivo, grigia rispetto al bianco delle pareti. Se così non fosse, la potenza prospettica e vibrante della linea risulterebbe ancora più ingovernabile, più destabilizzante di quello che la triangolazione ottica e gli errori di parallasse non lasciano già, per natura, intra-vedere.
ginevra bria
mostra visitata il 29 maggio 2007
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mostra meravigliosa!