Giuseppe Di Liberto, Quando una stella muore, omaggio alla notte o Morte a Venezia, 2023, Stampa 3D in resina, luce notturna LED, Courtesy IUNO e l’artista
Nell’appartamento romano di IUNO, progetto curatoriale indipendente diretto da Cecilia Canziani e Ilaria Gianni, The Good Company, curata da Giulia Gaibisso, non è soltanto una mostra collettiva – con opere di Jacopo Belloni, Paolo Bufalini, Giulia Crivellaro, Giuseppe Di Liberto, Davide La Montagna, Andrea Martinucci, Margherita Morgantin, Beatrice Tabacchi – ma una riflessione intima e stratificata sulla compagnia come presenza e assenza. Un concetto fluido che intreccia riconoscimento e intimità ma che, attraverso l’allegoria, trasforma l’imperturbabile in inconscio, anomalia, movimento, inganno. Appena ci si ambienta nello spazio, infatti, subentra qualcosa di antitetico.
Un primo giro dell’appartamento restituisce una sensazione di calma piatta, un’atmosfera distesa, delicata. Uno sguardo superficiale delle opere, che senza leggere il foglio di sala, ti fanno pensare a temi consueti: memoria, ricordi, storie di famiglia. Si presentano oggetti archetipici come una pelliccia, una kefiah, foto di famiglia; materiali come luce, seta, latte, pietra; suoni come i canti gregoriani.
Partendo dal lavoro di Beatrice Tabacchi, la memoria è centrale. Le sue opere, Separation Piece e Summer Passage (2025), intrecciano livelli temporali ed emotivi: miniature dipinte, materiali organici, fotografie e frammenti domestici. Al centro, un armadio che custodisce una pelliccia: un oggetto-soglia, capace di sprigionare memorie di un tempo remoto. Poi si espande ulteriormente fino a condurci in un’altra stanza, dove il secondo lavoro è inserito dentro una libreria. Una miniatura dipinta su plastica rievoca i paesaggi della Sicilia.
Anche Giuseppe Di Liberto affronta il tema della soglia ma lo fa con un linguaggio rituale e funebre. L’opera, dal titolo Quando una stella muore, omaggio alla notte o Morte a Venezia (2025), è composta da tre fiaccole, totem spirituali che mappano le torce votive del cimitero di San Michele a Venezia. Realizzate in resina stampata in 3D, si ispirano alle luci tremolanti della laguna e assumono la forma di piccole sculture, inoltre continuano a illuminare IUNO anche dopo l’orario di chiusura, prolungando la vita della mostra oltre la presenza fisica del pubblico.
L’esposizione si estende così a tutto lo spazio domestico, anche quando l’appartamento è vuoto e silenzioso, aspetto essenziale dell’intero progetto: tutte le opere di The Good Company abitano la casa e ogni installazione si configura come un gesto relazionale. Un artista per una o più stanze (tranne il bagno) e poi anche un’opera in terrazzo, quella di Anemoscopio (2025) di Margherita Morgantin. L’opera si compone di tessuti leggeri e resistenti, sensibili al vento e ai minimi cambiamenti atmosferici: un’istallazione ambientale in cui forme e sorti sono consumate e decise dall’ambiente e dal clima. Morgantin lavora anche sul concetto di resistenza portando il suo lavoro a una dimensione collettiva, una parte del tessuto dell’opera, infatti, è una kefiah.
Giulia Gaibisso, per spiegare il sottofondo simbolico di questa collettiva, racconta che «Persiste una distanza tra l’artista e l’alterità a cui tenta di connettersi, a cui cerca di avvicinarsi il più possibile, ma senza mai poterla davvero raggiungere. È come la memoria: il passato, il ricordo, sono sempre una forma di manipolazione, così come l’invocazione di un’assenza o di una presenza, che non è detto poi arrivi». Questo emerge soprattutto nei lavori di Andrea Martinucci e Paolo Bufalini.
Nel lavoro di Andrea Martinucci, la pittura si sviluppa a strati, come se ogni livello aggiungesse un ricordo o un’emozione. Era scritto così e Tu ridevi io fumavo (2021) mescolano elementi astratti e figurativi: appaiono forme che ricordano parti del corpo umano (mani, guanti) ma sospese in uno spazio indefinito, quasi senza peso. L’intera serie si intitola Carezze e richiama al “contatto”, non in senso diretto ma, piuttosto, alla traccia che rimane, infatti affiorano immagini incomplete. Le mani dipinte, le ombre, le sovrapposizioni di materiali sembrano provenire da un sogno.
Anche nel lavoro di Paolo Bufalini la presenza affettiva viene filtrata attraverso una forma di disturbo ma, in questo caso, si tratta di un’interferenza digitale. Le due opere Portraits of the Sister as a Sleeper (2024) all’ingresso e Portraits of the mother as a Sleeper II (2024) in un’altra cameretta, appartengono alla serie Argo, in cui Bufalini mette in atto un processo di ricostruzione artificiale del ricordo, dove l’intelligenza artificiale non è solo uno strumento. I volti appaiono sospesi, leggermente sfocati, non c’è nitidezza ma un’opacità che avvolge le figure. È una presenza ibrida, tra realtà e simulazione, che genera una nuova forma di ritratto affettivo, da lontano sembrano momenti intimi di vita quotidiana (la madre in posa sul divano, la sorella assopita su un letto) ma da vicino si intuisce l’ambiguità.
Ecco, dunque, che a un secondo giro dell’appartamento, la percezione di un’atmosfera pacata si altera: affiorano dettagli più dinamici, perturbanti, che muovono le opere verso traiettorie meno eteree. Si presentano sagome mutanti, memorie confuse, ombre, ricordi manomessi, evocazioni stranianti.
Emblema di questa doppia impressione è il lavoro di Jacopo Belloni: Birichino (2023), che si trova nel salone centrale. Si manifesta come una figura fitomorfe, tracciata a parete attraverso una composizione di petali di seta. L’opera riprende l’estetica della tradizione sartoriale teatrale, ma al tempo stesso richiama la logica memetica come meccanismo di trasmissione culturale. Il riferimento al “meme” – inteso non solo come contenuto virale, ma come unità minima di significato replicabile – introduce un campo semantico in cui immagini, storie e forme si trasformano attraverso processi infiniti di imitazione e variazione.
Birichino, infatti, si adatta e si modifica in relazione allo spazio in cui viene collocato ed esprime quella tendenza profondamente umana a replicare forme tratte dal mondo naturale. Ne risulta una figura (anche qui) “ambigua”, sospesa tra infanzia, ritualità e alterità, che non rimanda tanto a una memoria individuale, quanto a una memoria sedimentata, capace di evocare l’arcaico in uno spazio contemporaneo come il salotto di un appartamento; non è solo un mutaforme, o contenitore di infiniti significati, è anche la componente allegorica più potente della mostra. Birichino ha una forma, ma potrebbe averne altre mille.
In una direzione diversa ma che dà sempre spazio all’immaginazione e a qualcosa che non si vede ma che potrebbe esserci, va il lavoro di Davide La Montagna, con una versione aggiornata di Milk for the Fairies (2020). Una costellazione di bicchieri colmi di latte è disposta sul pavimento come un gesto d’offerta, rivolto a presenze invisibili, forse creature fatate, evocate per la loro capacità di incarnare desideri e aspettative inespresse. Qui il fiabesco si intreccia con il quotidiano e trasforma un gesto domestico in atto magico.
Infine, nella cucina di IUNO, trova spazio il lavoro di Giulia Crivellaro, in cui il processo di straniamento, talvolta apertamente alienante, raggiunge il suo apice. In A General State of Loneliness (2019), l’artista riflette sulle forme rituali del pasto attraverso una registrazione dello schermo del proprio Mac: una struttura a matrioska, visivamente ingorda, in cui si moltiplicano video presi dal web, dove content creator mangiano davanti alla telecamera.
Piatti, alimenti, utensili e visualizzazioni si susseguono in un flusso compulsivo e saturo. La preparazione del cibo, così, si trasforma in un atto simbolico svuotato di reale intimità; la masticazione diventa ripetizione meccanica, boccone dopo boccone si viene risucchiati da un loop visivo che anestetizza la mente e induce disagio. A concludere il video, un coro gregoriano: una sonorità quasi liturgica, che amplifica il paradosso e disumanizza l’atto collettivo.
In questo duplice movimento tra visibile e latente, The Good Company – che sarà visitabile fino al 3 ottobre 2025 – racconta di un qualcosa che mentre si manifesta si dissolve.
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