Collisions, veduta della mostra, opera di Marta Frejute, Untitled, 2024 (dettaglio). Foto Maurizio Esposito
La tendenza alla dislocazione delle attività e dei servizi dal centro alle periferie si osserva anche nella città delle eccezioni, Napoli, che negli ultimi anni si è andata adattando al turismo di massa, come un camaleonte placidamente adagiato sulla sua storia millenaria. Le istituzioni che qui si ergevano cercano, ora, altri spazi d’azione, di produzione, di smistamento. Sì, ci stiamo girando attorno: è l’effetto della gentrificazione. Rimangono a presidio gli antichi palazzi, gli uffici di rappresentanza, gli archivi e alcuni musei, anch’essi placidi, finalmente improduttivi, al riparo dal turbine passeggero dei turisti.
Tra questi, i musei universitari sono esemplari sommessamente speciali. Come gli altri, assolvono la funzione di conservare ed esporre il patrimonio ma sono anche i luoghi dove si organizza un immaginario legato alle tecnologie e agli oggetti della conoscenza. Centri dove la divulgazione scientifica prende il sopravvento lasciando poco margine all’inserimento del discorso molteplice dell’arte contemporanea.
L’invito della curatrice Alessandra Troncone rivolto alle tre artiste lituane Marta Frėjutė, Ona Juciūtė e Simona Žemaitytė, ha condotto a un auspicato confronto con il Museo di Fisica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e con la sua collezione. La mostra, visitabile fino al 30 giugno, propone una “collisione” giocata sul medesimo campo, quello della ricerca – come sottolinea nel suo testo Troncone, di recente nominata tra i curatori della 18a Quadriennale di Roma – pur facendo ricorso a strumenti dissimili da quelli analitici dell’ambito scientifico.
La ricerca artistica non prova una tesi, non insiste sulla veridicità, sul dato oggettivo o sull’esattezza, si muove ondivaga, inoltrandosi in territori inesplorati. Eppure, quando il dialogo prende forma nel contesto di un museo scientifico universitario, i piani si intersecano, le discipline si osservano fino a stabilire un rapporto di affinità. È il caso dell’opera di Marta Frėjutė, che trae i suoi motivi dalle lenti esposte nel museo, come la Fresnel. Oggetti curiosi, perché alterano la visione, ma anche portentosi, in quanto capaci di rifrangere enormi quantità di luce. Rivisitando il tema della deformazione ottica, Frėjutė ha realizzato le sue sculture: grandi bulbi oculari in legno, posizionati sul pavimento dell’ampia sala del museo, oggetti stranianti ed enigmatici, anch’essi dotati di lenti, che si fanno interpreti di alcuni dei temi maggiormente esplorati dall’artista, tra i quali il nesso tra finzione e memoria.
L’intervento di Ona Juciūtė si inserisce letteralmente nell’allestimento museale, puntando sulla mimesi grazie all’utilizzo di oggetti ambigui, esteriormente simili al legno ma sottoposti al processo di fossilizzazione. Sostenute da elementi amorfi realizzati con calchi di chewing gum, le opere trovano spazio nelle vetrine del museo inducendo ad aguzzare lo sguardo. L’artista – che non è difficile immaginare sia anche curatrice e scenografa – propone una interpretazione duplice del materiale legnoso il cui stato è irrimediabilmente alterato, così come il suo significato, oscillante tra le discipline scientifiche e quelle spirituali, a causa delle presunte qualità benefiche. Un lavoro sottile, ai limiti dell’invisibilità, ma che ricompensa l’attento visitatore.
Una terza via interpretativa della speciale collezione è offerta da Simona Žemaitytė, artista visiva che predilige il linguaggio video e che infatti introduce accanto agli strumenti analogici alcuni schermi digitali. Partendo dalle immagini e dai dati relativi a uno dei fenomeni più caratteristici del territorio – e, ora più che mai, sentiti -, Žemaitytė restituisce una parafrasi visiva dell’attività vulcanica della zona Flegrea. Ai frame raccolti con la termocamera, accosta brevi dialoghi, reazioni legate al fenomeno del bradisismo, sottolineando quanto, pur con gli sforzi posti in campo dagli scienziati, alcuni dei meccanismi degli eventi naturali restino oscuri.
Le opere scelte per Collision, rievocano, interpretano e forse tradiscono la cultura accademica cui sono legati gli strumenti scientifici, esplorando aree irrisolte della conoscenza, al riparo dagli assiomi e dalle risposte esatte, contemplando nell’esperienza della ricerca gli aspetti di fallibilità e insicurezza, lo stupore di fronte ai fenomeni naturali, il tentativo tradito di mettere ordine nel caos dell’universo.
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