Edouard Nardon, The Address Gallery Brescia. Installation view
Questi fantasmi
Intriganti dipinti, tele grezze intelaiate di grandi dimensioni, dove forme avvolgenti si intrecciano in una sorta di impressionismo astratto che diviene simbolismo onirico, attingendo al profondo della psiche e della storia dell’artista.
Questa è la sostanza della mostra di Edouard Nardon curata da Riccardo Angossini alla The Address Gallery di Brescia, dove l’artista approfondisce la sua ricerca pittorica passando da stesure sottili a stratificazioni più intense e profonde, fino ad arrivare a mostrare l’essenza materica dei pigmenti.
Avevamo lasciato il pittore con opere dove già emergevano ectoplasmi, memorie infantili e archetipi iconici, collegati da linee di tensione in modo drammatico, sebbene con una dominante coloristica tanto leggera quanto i ricordi evocati, ma minacciosi nell’incedere delle figure simboliche.
In questi nuovi quadri l’artista arriva a cromatismi intensi e spessori di dipinto sensibili, tangibili, anche attraverso una ricerca della sovrapposizione dei materiali pittorici dove si manifestano gesso, polveri, cariche di marmo, dimostrando – come lui stesso afferma – di percorrere la via del “Magnum Opus” alchimistico , segnata dai suoi stadi simbolici: nigredo, albedo, citrinitas, rubedo, cauda pavonis (nero-terra, bianco-acqua, giallo-aria, rosso-fuoco, coda del pavone-policromia).
Questo processo di determinazione dei colori, che parte dal buio e trova la luce, porta nei dipinti la “contraddizione costruttiva” di stati opposti:
forme che evolvono dalla lievità del segno e del tono verso la intensità dello strato e dei colori forti o bui, stesure pittoriche su un supporto di tela non preparata, ruvida, che fa da contrasto e sfondo. La fluidità del gesto ragionato – che appare in continuità con la mente dell’artista ma anche autonomo e irrefrenabile – dà luogo alla natura apparentemente informale del dipinto, dove emergono immagini ambiguamente riconoscibili.
Sono simboli dalle molteplici valenze: maschere inquietanti che diventano minute e rassicuranti figure femminili, che avanzano nello spazio verso l’osservatore. Sono mani che abbracciano ma si dilungano fino a diventare artigli della Fenice, alambicchi da cui zampillano elisir ma anche sorgenti di acqua purificatrice. Calici di vino abbandonati nel ricordo dell’ebbrezza, ma anche vasi canopi generatori di fantasmi.
Le ombre della psiche – emerse dal dipinto con il controllo della ricerca alchemica che vuole governarle nella coscienza del sé – non appaiono più minacciose ma dialogano e si confrontano con l’artista, come segni di una storia che è collettiva ma anche materialmente vissuta dal pittore.
Appaiono così scie di fiori e stelle (la coda del pavone) che ricordano l’educazione dell’artista, il suo vissuto nella cultura Francese e gli apparati decorativi – quasi fondali di tessuto – dei simbolisti dell’Ottocento.
Dai precedenti quadri chiari ma dominati da una tensione spasmodica, l’artista approda dunque ad opere che scaldano con una sensazione di (momentanea?) quiete e di accettazione, nel suo processo creativo-cognitivo dalle tenebre alla luce, dalla corruzione alla purificazione, dalla malinconia al vivido ricordo cosciente.
Nardon sembra aver fatto la pace con i fantasmi, non li nega ma convive e dialoga con loro.
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