Eva Koťátková, Blankets, Monsters, Anna and the World, installation view, Meyer Riegger, Berlin, 2022. Courtesy of the artist and Meyer Riegger. Photo: Oliver Roura
Il foyer di un centro dell’arte contemporanea dal sapore internazionale che diventa una lavagna per bambini: piccoli scarabocchi, mostri colorati, ritratti abbozzati ricoprono il pavimento dell’ampio atrio dell’Haus der Kunst di Monaco. Non si tratta di un’errore o di un atto di vandalismo, ma del progetto interattivo Mega Please Draw Freely (2025) dell’artista giapponese Ei Arakawa-Nash nella cornice della mostra For Children. Art Stories since 1968. Qui il segno infantile diventa non solo traccia estetica ma vera e propria forma di occupazione dello spazio: un gesto che ridefinisce le gerarchie consuete del museo.
Curata da un ampio team internazionale —Andrea Lissoni, Emma Enderby, Lydia Korndöfer, Xue Tan, Lydia Antonio, Layla Wu, Sabine Brantley, Pia Linden e Camille Latreille— l’esposizione apre interrogativi raramente affrontati dall’arte contemporanea: che cosa significa essere bambini oggi? Come possono i più piccoli entrare in un museo senza sentirlo come un luogo ostile? Che cosa possiamo apprendere dal loro sguardo non filtrato e che cosa possono apprendere loro dagli artisti e dai curatori? Questi i quesiti che guidano il visitatore —di qualunque età— tra le sale dell’Haus der Kunst, fino all’aperto, dove una nuova scultura di KOO JEONG A trasforma il giardino in un campo da skate.
Nonostante il poco peso che le istituzioni spesso riservano ai più piccoli, l’esposizione mette in evidenza come, in realtà, essi siano stati al centro di molti progetti artistici a partire dagli anni Sessanta. Attingendo da questa ricca tradizione, le sale vengono costellate da installazioni giocose e interattive e riflessioni sul mondo dell’infanzia.
Esempio di ciò sono i 500 kilogrammi di Lego bianchi che costituiscono l’opera The cubic structural evolution project (2024) di Ólafur Elíasson e i blocchi di legno proposti da Yto Barrada, che vede proprio il gioco come fondamentale per sviluppare la propria identità.
E poi ancora: mantelli di tessuto che riparano i bambini dalle loro peggiori paure, coperte soffici che costituiscono ambienti interattivi, un parco artificiale che in piccoli schermi incorpora modelli di comunicazioni pensati per i bambini con problemi di apprendimento. L’Haus der Kunst diventa così uno spazio ibrido, in cui realtà e immaginazione si mescolano l’uno nell’altro, come accade nella serie di video Bedtime Stories (1973 – 1977), tra i lavori forse meno conosciuti del regista tedesco Harun Farocki. Negli episodi in mostra, due bambine riempiono quello spazio-tempo tra la vegli e il sonno con fantasi di navi, pontili, binari e gattini: un mescolarsi di elementi intimi che ci riporta indietro nel tempo e ai rituali tra gentiori e figli.
La cosa più interessante della mostra, tuttavia, non sono tanto i grandi nomi che vi hanno partecipato o la varietà dei lavori esposti, ma piuttosto la reazione del pubblico. Sono i bambini, infatti, ad affollare le sale, a soffermarsi davanti ai video, a seguire i workshop e le visite guidate.
In questo senso, For Children non è soltanto una mostra sull’infanzia, ma un esperimento istituzionale: ci ricorda che il museo non deve essere pensato come luogo della disciplina e del silenzio, bensì come laboratorio di socialità e divenire. I bambini, con la loro capacità di agire senza timore, dimostrano che ogni spazio culturale può essere continuamente rifondato, abitando lo spazio in maniera nuova —senza gerarchie— e rifiutando la logica della contemplazione passiva per sostituirla con quella dell’azione.
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