Gli artisti di Ca’ Pesaro. Opere da collezioni private, exhibition view, Villa Romivo, Agenzia Generali di Montebelluna, 2025
Ci sono mostre che nascono come eventi e altre che si rivelano come gesti. La collettiva Gli artisti di Ca’ Pesaro. Opere da collezioni private, ospitata a Villa Romivo, non si limita a raccogliere 34 opere preziose ma apre una soglia, quella che separa le case dei collezionisti, dove i dipinti spesso giacciono invisibili, dalla comunità che oggi li ritrova come parte viva della propria identità.
Per Montebelluna è un abbraccio che sa di ritorno, perché questi artisti, prima di diventare icone della modernità italiana, furono uomini che abitarono davvero il territorio: le isole veneziane, le campagne del Montello, i caffè di provincia, le strade quotidiane. La loro pittura non fu mai un esercizio di stile, ma un atto di restituzione al paesaggio. E oggi, in un movimento circolare, quel paesaggio restituisce loro visibilità.
Il merito non è solo dei collezionisti che hanno scelto di condividere i propri tesori, ma anche dell’Agenzia Generali di Montebelluna che ha trasformato la sede locale in un luogo aperto di convergenza, dove l’arte diventa occasione di incontro. Villa Romivo, con la sua architettura aulica e misurata, accoglie la mostra che si articola su due dei suoi piani, tra corridoi luminosi e affacci sul giardino che dialogano con i paesaggi raffigurati, amplificando il rapporto tra interno ed esterno. È un’armonia organica, quasi inevitabile, tra spazio e opere.
Come sottolinea il curatore Moreno Sartorello, dietro a questa iniziativa c’è un’idea semplice e radicale: rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe invisibile, ribadire che la cultura non appartiene solo ai grandi musei o alle istituzioni pubbliche, ma può germogliare ovunque, persino nei luoghi di lavoro, là dove fiorisce il desiderio di apertura e condivisione.
La scelta degli artisti diventa così un gesto di radicamento. I cosiddetti “capesarini”, ribelli che tra il 1908 e il 1924 sfidarono le Biennali veneziane, non furono cosmopoliti disincarnati, ma giovani capaci di assorbire le avanguardie europee senza mai tradire la propria terra. Gino Rossi, con i suoi volti lacerati e i paesaggi vibranti; Umberto Moggioli, che fece della laguna un laboratorio di luce; Arturo Martini, scultore inquieto che anche nei disegni e nelle incisioni inseguì la densità plastica; Pio Semeghini, buranello che donò al colore la freschezza di un dialetto luminoso. E accanto a loro figure come Cagnaccio di San Pietro, Guido Cadorin, Nino Springolo, Juti Ravenna, Arturo Malossi, Teodoro Wolf Ferrari, ciascuno a modo suo costruttore di una modernità che non rinnega le radici.
La critica si interroga sul valore odierno del legame con il territorio. In questo caso esso non è accessorio ma conta moltissimo. Non si tratta di nostalgia o folklore, bensì di una necessità che scaturisce dall’opera stessa, dalla sua essenza più intrinseca. Gli artisti di Ca’ Pesaro abitano e traducono la natura senza conformarsi alla sua mera imitazione. È questo radicamento che conferisce alle loro opere d’arte l’intensità espressiva di una modernità regionale, capace però – grazie alla cornice di Generali e alle scelte curatoriali – di diventare linguaggio universale.
Sul piano compositivo emerge un equilibrio delicato tra l’intimità custodita dal collezionista e la vitalità irradiata dalla comunità che riceve. Non sempre le opere moderne riescono a mantenere questa doppia anima, quella dell’innovazione formale e della fedeltà al paesaggio d’origine. Qui, le pennellate di luce, la vibrazione dei colori, la composizione restano saldamente ancorate a un’origine che non scade mai nel provinciale, ma anzi diventa motore di resilienza e rinnovamento.
«Aprire le porte delle nostre sedi significa sostenere la comunità, offrire esperienze culturali, creare legami», raccontano i promotori. Non è retorica, è il segno di una cultura che si fa strumento di sostenibilità e relazione, perché sostenibilità non è solo rispetto dell’ambiente o riduzione dei consumi, è anche educare lo sguardo, coltivare pensiero critico, offrire bellezza come bene comune.
Oltre le mura, la mostra si fa ponte tra persone e comunità, aprendo finestre su identità condivise, restituendo arte a chi non sempre vi ha accesso e dimostrando che la cultura non è un lusso elitario ma un tessuto che unisce, cura, anima. È un proposito sociale e culturale: far dialogare luoghi, comunità, memorie e linguaggi, sottraendo frammenti di vita all’oblio.
Due opere simbolo condensano questa energia: Le casette a Treporti di Moggioli e Uomo e donna a colloquio di Gino Rossi. Non sono solo un paesaggio e due figure, ma la dichiarazione di un istinto dirompente, il desiderio di uscire dagli schemi e cercare l’umano nella sua nudità fragile e potente.
Visitare Villa Romivo allora non significa solo attraversare un capitolo della storia dell’arte italiana, quanto partecipare a un gesto collettivo. È come se quelle opere dopo un secolo tornassero a casa, non nel senso privato della proprietà, ma in quello più ampio: la casa come comunità, come territorio che ritrova nel suo paesaggio, nei suoi colori, la propria voce.
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