Installation Views, Helen Chadwick - Life Pleasures courtesy Museo Novecento, 2025 ph Elisa Norcini
Il Museo Novecento rende omaggio a una voce radicale dell’arte contemporanea con Helen Chadwick. Life Pleasures è la prima grande retrospettiva italiana dedicata all’artista britannica, a cura di Sergio Risaliti, Stefania Rispoli e Laura Smith. La mostra — realizzata con The Hepworth Wakefield e Kunsthaus Graz, dove si sposterà in una tappa successiva — ha inaugurato simbolicamente il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, e si inserisce nella programmazione del museo che dedica una particolare attenzione alle artiste, come per le precedenti mostre di Bice Lazzari, Maria Lai, Louise Bourgeois, Cecily Brown. In continuità con Life Pleasures, nello stesso periodo a Palazzo Medici Riccardi è visitabile la mostra di Clemen Parrocchetti, curata da Stefania Rispoli e Marco Scotini.
L’esposizione riunisce lavori che coprono gran parte della carriera di Chadwick, dalle prime sperimentazioni performative fino alle sculture-icona degli anni Novanta, come i celebri Piss flowers (1991-1992). Queste sculture in bronzo nascono da un gesto radicale e provocatorio. Mentre erano in Canada per una residenza artistica, Chadwick urinò nella neve fresca insieme al suo compagno, creando impronte che poi trasformò in calchi. Il risultato sono forme falliche bianche che ribaltano ironicamente i simboli di potere e virilità. Trasformando un atto corporeo di espulsione in monumenti fragili ed eleganti, i Piss Flowers in Life Pleasures occupano l’ambiente della cappella nel Museo, una volta destinato alle celebrazioni religiose.
L’artista britannica padroneggiava già in giovane età diversi media — fotografia, installazione, performance, light-box — con una compiutezza formale sorprendente. Le sue opere occupano le sale del Museo Novecento relazionandosi allo spettatore come dispositivi che suscitano emozioni contrastanti: meraviglia e stupore, disgusto e repulsione. Come nell’opera Loop my loop (1991-1992), una lightbox in cui l’immagine di una ciocca di capelli s’intreccia a un intestino animale. Il pensiero va all’usanza d’epoca vittoriana per cui la donna regalava all’amato una ciocca della sua chioma, come pegno d’amore.
Il corpo riveste una posizione centrale nella ricerca di Helen Chadwick: desiderato, mercificato, ma soprattutto rivendicato come strumento di autoaffermazione femminile, in rottura con gli schemi convenzionali, perbenisti e borghesi della sua epoca, così come della nostra. In questa prospettiva apertamente femminista, Chadwick considerava il corpo nella sua totalità, alla dimensione umana univa quella animale, al sentimento politico quello viscerale.
In questa prospettiva, ma in una cifra più simbolica, si inseriscono opere come The Oval Court (1984-1986): complessa allegoria in cui l’elemento numerico affianca l’immagine del corpo dell’artista, dell’animale, del cibo. Un’opera barocca e insieme concettuale, parte della più grande esposizione Of Mutability che le valse la candidatura al Turner Prize nel 1987, oggi parte della collezione del V&A Museum di Londra.
Dissacrante, irriverente e trasgressiva. Helen Chadwick è stata un’artista punk e femminista, per temperamento e per contesto. Si sporcava le mani con viscere, pellicce, organi animali — materiali il cui uso oggi è assai controverso e perlopiù evitato — usati per “sbattere in faccia” letteralmente la crudezza dell’interiorità, la materia viva (e morta) di cui siamo fatti. Per l’artista essere sovversiva era una scelta nella ricerca così come nella vita, in cui gioco e ironia feroce erano sempre presenti. A Beck Road, nel quartiere londinese di Hackney, viveva in uno degli appartamenti occupati da artisti e creativi – esperienza che prosegue ancora oggi con ACME.
Erano gli anni in cui Londra ribolliva di energia punk, new wave, performance art e controcultura. Nei club underground suonavano Siouxsie and the Banshees e i Clash, mentre Derek Jarman girava film visionari e Gilbert & George scandalizzavano con le loro performance. Chadwick si muoveva in questa scena con disinvoltura — in giacchetto di pelle e motocicletta, racconta la curatrice Stefania Rispoli — assorbendo quella stessa urgenza creativa e quell’attitudine dissacrante che permeavano la controcultura britannica. La sua pratica non scandalizzava per provocazione gratuita: destabilizzava per necessità, per scardinare con grazia e sarcasmo le convenzioni ipocrite del buon costume.
In the Kitchen (1977) è un’altra celebre opera-performance di cui al Museo Novecento vediamo una ricca documentazione fotografica. Helen Chadwick indossa costumi-oggetto che replicano una lavatrice, un lavandino, oggetti propri dell’ambiente domestico associato alla donna-casalinga. Sculture ingombranti come lo era, e in parte è ancora, il peso simbolico della donna relegata al ruolo domestico. Invece, One Flesh riprende il tema e l’iconografia della maternità, e ne ribalta la prospettiva di stampo patriarcale. La madre è ritratta con la figlia, non un figlio – scelta deliberata – e vediamo elementi tanto insoliti nelle rappresentazioni convenzionali quanto naturali nella maternità reale: la placenta, i fluidi e poi un dito che indica il sesso della bambina, qualora fosse sfuggito all’occhio dell’osservatore la femminilità rimarcata di questo evento vitale.
Dai primi lavori durante gli anni di studio alle mostre alla Serpentine Gallery, al MoMA, alle partecipazioni alle biennali d’arte di Venezia e di San Paolo, Helen Chadwick si è fatta largo nella scena contemporanea, aprendo la strada a un’estetica che combina piacere e disgusto, eleganza e rifiuto, rendendo permeabili i confini tra bello e repellente. Nella sua carriera artistica ha collezionato varie esperienze di docenza nelle scuole d’arte londinesi. Con la sua ricerca femminista, radicale e visionaria, ha influenzato direttamente figure fondamentali della scena artistica britannica tra gli anni ‘80 e i ‘90. Gli Young British Artists come Tracey Emin, Sarah Lucas e Damien Hirst hanno raccolto la sua eredità. Quella di Helen Chadwick è una poetica che ancora oggi irrompe, interroga e disturba. Tra le voci più originali della sua generazione, l’artista britannica è scomparsa all’età di quarantadue anni: l’interruzione brusca di una carriera promettente di cui possiamo solo intuire le potenzialità inespresse, resta però il merito di mostrarci la vita nella sua interezza, senza ipocrisia né censura.
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