Homeward. Installation view, Radio Shkodra. Courtesy l'artista e Art House, Shkodër
Homeward, mai titolo fu più appropriato: sembrava infatti che ognuno di loro, dei trentatré artisti che Art House ha riunito per festeggiare i suoi 10 anni, conoscesse e riconoscesse ogni piastrella, ogni parete, ogni odore e ogni suono. Del resto qualcuno di loro a Scutari è nato, qualcuno lì vive e tutti ci sono stati, almeno una volta, attraverso la residenza che Art House ha organizzato, in questi anni, per quattro edizioni, per dare sostegno e possibilità di crescita agli artisti emergenti locali attraverso uno scambio circolare di esperienza, riflessione e pratica tra coetanei.
Oggi tutti insieme sono tornati portando con sé scelte e percorsi, e proprio come una casa aspetta i suoi inquilini, sopravvive anni lontano da noi e poi apre le sue braccia di porte, così Radio Shkodra, la Galleria Civica, il Marubi – Museo Nazionale della Fotografia, l’Auditorium francescano e Art House stessa hanno accolto loro e le loro opere, in cui risuonano questioni di identità, amore, storia, confini, urgenza climatica, violenza domestica, percorsi diasporici ed esperienze di migrazione, dandoci la possibilità di muoverci liberamente dentro una mostra – curata da Luçjan Bedeni, Tea paci, Zef Paci e Niovi Zarampouka-Chatzimanou e in programma fino al 13 ottobre – che romanticamente somiglia a una costellazione dove identità e ricordi brillano.
Il viaggio di ritorno alle radici che condividiamo con gli artisti parte da Radio Shkodra, che abbraccia fotografia e immagine in movimento con le opere di Abi Shehu (Saharaja, un’installazione di 12 vecchi televisori che diffondono animazioni derivanti da fotografie di graffiti, disegni, scritte e segni trovati sui muri della prigione e campo di lavoro di Spaç); Haveit Collective – che ripropone The Red Thin Line, la performance video che affronta il tema dell’assenza di una linea telefonica dedicata alle vittime di violenza domestica in Kosovo – Lek M. Gjeloshi, con The real people went away, una serie nata dal dono di alcuni rullini di origine sconosciuta che ha sottoposto a una doppia inversione con un visore obsoleto per negativi da 35 mm e l’obiettivo di uno smartphone facendo emergere uno spazio trasfigurato dove le immagini aleggiano; Luka Cvetkovich – che ci regala la metafora della distanza tra due paesi e due popoli con la performance The One, che rappresenta un bacio atteso ma mai dato – e Marlin Dedaj: sua è la fotografia Montestella (dal nome di una collina a Milano creata all’indomani della seconda guerra mondiale dalle macerie degli edifici bombardati e demoliti, e successivamente trasformata in un parco pubblico) che cattura i nostri occhi e li mantiene puntati su quei tre giovani nel tentativo di conoscere le loro storie, le loro emozioni.
Poco distante, alla Galleria Civica, che ospita un omaggio a Ferdinand Paci, il percorso espositivo si apre con alcuni dipinti di Iva Lulashi (Ti ho pensata così; Nudo, non per te; Speravo fosse sole e Per l’insostenibilità dell’essere), che emergono come ricordi dimenticati, come impressioni proustiane ben rappresentative della soggettività dinamica con cui l’artista sa rendere il mondo esterno simbolo della realtà interiore, e Erjola Zhuka, che con la macchina fotografica placa e asseconda il suo impulso alla costruzione di narrazioni visive di paesaggi familiari e realtà quotidiane. Le sue fotografie, tutte della serie MyTh-ing, sono potenti affermazioni di viva presenza che graffiano carezzevolmente e ironicamente la verità, togliendole il velo di Maya per mantenerci all’erta rispetto ai falsi miti.
La narrazione di Homeward prosegue con Jozefina Vokrri, che attraverso la lente del gioco rivela come la resilienza e l’immaginazione resistano attraverso le generazioni, plasmando sia la memoria personale che il nostro senso collettivo della storia (The Innocence of Play è un’installazione video a tre canali: ai lati gli schermi mostrano bambini capaci di trasformare strade spoglie con la loro inventiva, al centro invece c’è un frammento dell’infanzia dell’artista, un video amatoriale che mostra l’attitudine dei bambini di imitare gli adulti con gesti rivelatori di una realtà sociale di un passato non troppo lontano); Lori Lako – sua è Nationalism, you wild beast, un lavoro frutto della collaborazione con alcuni artigiani tessili espone la fragilità delle narrazioni nazionaliste e i pericoli che esse comportano – e Doruntina Kastrati, che affida a una scultura a forma di guscio di pistacchio appesa al soffitto (Silver Bone V) la denuncia, di carattere sociale, del duro lavoro femminile che produce il tanto richiesto e accattivante Turckish delight.
Sempre alla Galleria Civica, insieme alla serie di dipinti di Bib Frrokaj (The Project), basati su una storia personale, in cui l’artista, attraverso le sue opere, ritrae le varie fasi della sua relazione, la scoperta e le dinamiche tra la coppia in una narrazione non lineare; e alle fotografie su legno MDF (The Rooms of Grand Hotel of Prishtina) di Jona Krasniqi, che affronta la fragile temporalità degli spazi che portano il peso della storia lasciando emergere una memoria tattile, Ergys Vela riprende il tema intramontabile della mimesi e mette al centro della sua installazione il termine albanese “imitimi” – se scomposto, rivela il significato letterale dell’immagine speculare in esso racchiusa – su uno specchio che, complice il gioco linguistico, diventa un luogo in cui il significato si ripiega su se stesso. Ancora, Laura Paja, con Lajmëtaret / The Messengers, un’installazione in cui si fa spazio in un canto funebre proveniente dal nord dell’Albania intonato dagli uomini per gli uomini (Giama e burrave) riscrivendo il rituale attraverso una voce che diventa coro, corpo collettivo e possibilità storica. Il viaggio ci porta alla scoperta anche delle opere di Nora Bzheta, Alket Frasheri, Xhullian Millaj, Elsamina Musiq, Marina Sula e Saša Tatić, che porta a Shkodër The Visit, un’opera murale formata dalla frase “I visit home whenever I can” e posizionata sulla soglia della galleria, che ci trattiene dio fronte a lei, abitandola, per un momento, da soli o con chi ci sta accanto, come fosse il palcoscenico di in un incontro e che ci restituisce l’immagine della casa come un luogo vicino e irraggiungibile, un luogo di memoria, desiderio e contraddizione.
Spostandoci verso il Marubi – Museo Nazionale della Fotografia, varcando la soglia, sulla sinistra si trova Museum of Bad Memories, la serie fotografica di Jetmir Idrizi su Spaç, l’ex prigione politica dove il regime comunista albanese ha confinato i dissidenti per oltre quarant’anni, a destra invece Portrayal of a Crisis di Silva Agostini, che riflette sulla vulnerabilità umana e sulla natura effimera dell’esistenza. Il lavoro di Erdiola Kanda Mustafaj (Island of Time) è composto da immagini frammentarie, scattate negli ultimi sei anni tra Albania, Grecia e Italia, che si accumulano come utopie vissute e raccontate mille volte; Orestia Kapidani si muove tra la solenne chiarezza del ritratto in posa (Milk and Blood) e i territori incerti del sogno (Un-Seen); Stefano Romano ci fa entrare nel suo progetto, Study for a monument, un archivio fotografico che coinvolge la gente comune, che partecipa attivamente con la propria rappresentazione dell’idea di monumento per riflettere sulla sua attualità; e Elton Gllava – last but not least – ci porta in un viaggio attraverso l’oscurità interiore con Solaris, un progetto nato al tempo della recente pandemia che ci costringe ad affrontare ciò che abbiamo amato, perso e che non tornerà mai più.
Dal Marubi, destinazione Auditorium francescano con Edson Luli che propone Footsteps Towards the Future, un’opera per sua stessa natura partecipativa, che trasforma lo spazio in un deserto all’interno del quale il pubblico può muoversi, lasciando la propria impronta, fidandosi delle proprie sensazioni e in parte guidato da 21 micro fonti di luce. Quali fonti? Niente meno che bottigliette d’acqua in plastica riciclate e illuminate a led. Queste bottigliette, quelle che noi, finendo di bere e avanzando un goccio d’acqua, accartocciamo e buttiamo, Luli le recupera, ci ricorda quanto il mondo abbia sete, ci impone di prestare molta attenzione e prototipa un nuovo modello di rinnovabilità e sostenibilità che, aderente alla sua ricerca, cortocircuita ciò che crediamo. Lasciate le impronte, con la consapevolezza che si può imparare molto quando si è costretti a pensare in tempi così lunghi, ci si avvia verso Art House, ultima tappa del nostro viaggio. Un giardino separa la casa vecchia, dove troviamo Wavelenghts, un’installazione video di Remijon Pronja che trasforma la memoria in luce attraverso il racconto della storia di un uomo, Abedin Beqir Destani in un continuo alternarsi tra presenza e assenza; e la casa nuova che accoglie invece Alketa Ramaj, Bora Baboçi, Fatium Doçi, Nazli Moripek, con At the Core of the Web of Things, il cortometraggio che esplora le dimensioni simboliche e sociali dei kilim anatolici, con una particolare attenzione alla rappresentazione degli animali e al loro ruolo nelle idee di fertilità e protezione; e Samela Balazi, con We Used to be More Sensitive, un’esplorazione specifica del sito della memoria, del corpo e dello spazio.
E adesso, adesso che abbiamo visto identità e ricordi brillare, adesso che siamo andati alle radici, verso casa, abitando quella casa, sia essa un luogo o una relazione, possiamo immaginare i prossimi dieci anni? «Forse non del tutto, ma certamente sì», parola di Art House.
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