Ian Davenport, Mirrors. Fabio Mantegna, Courtesy Luca Tommasi, Milano
Monza, Milano, Londra le tre città che hanno segnato il percorso di Luca Tommasi a diventare gallerista e il riferimento dell’arte inglese contemporanea a Milano (e non solo), nella sua galleria in via Cola Montano al quartiere Isola. «Ho iniziato nel 2010 con la pittura astratta a Monza con artisti come Giorgio Griffa e Pino Pinelli», racconta. «Tutti mi consideravano un po’ diverso essendomi sempre e solo occupato di pittura, in un periodo in cui era stata messa da parte. Ma io ho seguito quello che mi interessava. E’ una regola che seguo ancora. Mi da grandi risultati seguire le mie passioni». Indomito ha proseguito occupandosi di arte inglese con una prima mostra nel 2016 a Milano di Alexis Harding: «Ho incominciato con lui e poi ho proseguito con artisti nati negli anni ’50, ’60, ‘70». E oggi ha in mostra fino al 5 febbraio uno degli artisti degli Young British Artist, Ian Davenport, il primo che ha avuto un contratto importante con la galleria Waddington. Staccandosi quasi subito dal gruppo rispetto a Tracey Emin, Marc Quinn e Damien Hirst. Quel gruppo che nel 1988 in piena era tatcheriana si autoprodusse prendendo un capannone nei docks abbandonati dalla crisi dell’industria e confluì in una mostra storica nel 1997, “Sensation”.
Ian Davenport e la loro storia Luca Tommasi la conosce bene perché si è da poco laureato proprio con una tesi in storia dell’arte contemporanea sugli YBA. E spiega per filo e per segno come le ‘strisce colorate’ dell’artista inglese nascono e subiscono profonde variazioni pur ripetendosi. Un po’ come i lavori storici di Philippe Glass, micro variazioni tonali, ma fondamentali nel mutare la musica e l’ascolto. «E’ una pittura ‘processuale’, si seguono i movimenti della materia mettendo in atto la colatura. Il suo lavoro – prosegue il gallerista – è un alternarsi di controllo e causalità». Si tratta dello studio e della gestione del movimento del colore materico. «C’è un intervento di controllo del processo di colatura in corso. Le sue opere sono ‘colature’ fatte con delle siringhe di colore su lastre di alluminio. Se si tratta di opere grandi si arrampica su una scala e fa l’iniezioni’ da lì». La serie dei lavori visibili a Milano si chiama “Puddle paintings”, perché alla base dell’opera si crea una pozzanghera (puddle) dove il colore si mischia. E si formano affascinanti macchie esteticamente organizzate. E’ un processo anche questo studiato. Perché Davenport tiene piegata la lastra di alluminio alla base, così il colore scivola lungo la parte in verticale e si ferma in quella orizzontale. E cambia direzione creando nuovi disegni, appunto. «La sua può anche essere definita una visione post minimalista – aggiunge – ma Davenport è uno che non smette di ricercare. Per esempio, in questi lavori ha iniziato a creare una specularità tra i due lati del quadro. E ogni tanto si diverte a fare dei tributi a grandi artisti del passato prendendo dei loro colori di riferimento e riproponendoli con il suo stile pittorico».
Non mancate di indovinare in galleria quello con i blu in onore di Claude Monet.
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