Come una parola che attraversa la notte, pronunciata e origliata tra la veglia e il sogno, emersa vibrando da un sottofondo di silenzio inerte. Così, accompagnati da questa indeterminatezza, ci si ritrova ad articolare le opere di Marco Giordano, a scandirle nella mente oppure a bassa voce, muovendo appena le labbra, magnetizzati dai tratti squillanti delle lettere mescolate di Riva Vira Riva Vira Riva Vira (2023). E poi Gabag (2023), Seamaes (2023), i caratteri scomposti, esplosi di ritmo e sonorità come segni prelinguistici, trascrizione visiva di un balbettio enigmistico, da profeta. Sulle molteplici dimensioni del linguaggio e sulla sua capacità – che sembrerebbe innata – di trasformarsi continuamente in altro da sé, si concentra la ricerca di Giordano che, in occasione di un—shaped breath, la sua prima mostra negli accoglienti ambienti di Casa Di Marino, a Napoli, presenta un’ampia serie di nuove opere eterogenee, sculture e disegni, dalla superficie alla profondità, nello spazio o sulla parete.
Per Giordano, il linguaggio è un territorio stratificato e frastagliato, tipografia e topografia animate dalla presenza di geyser, coni vulcanici, sostantivi e avverbi che mettono in contatto il mondo superiore con quello inferiore. In questo paesaggio, le lingue sono foglie che tremano, ondeggiano o sussultano (TonguesLeaves, 2023, Seismic Tongues, 2023). Ritrovate per caso o scelte con precisione, le parole vengono quindi ricomposte e interpretate, emesse lungo il canale della voce e attraverso l’aria e poi coagulate, ricadute nella materia diventate patina, impresse e avverate su una superficie bradisismica, che sia carta sottile e dispiegata o conglomerati minerali prelevati dalle profondità della terra, lucenti, piroclastici. L’artista nato a Torino, classe 1988, dispiega questa sua vena carsica linguistica in una frattura del senso un po’ magica, poietica, nel cui spazio potrebbero rivelarsi declinazioni inaspettate di numero o di genere, di tempo o di modo, ma anche formule rituali o ritornelli evocativi, «Not Not Knock Knock».
La tensione è quella di sfuggire da una enciclopedia precisa, rientrando in un ambito di indeterminatezza pur non rinunciando a gestire il conflitto, tra tecniche miste e fusioni in lava, processi attraverso i quali forgiare le parole delle opere e le loro repentine associazioni mentali, gli istantanei collegamenti sinaptici. Se nella squillante gradevolezza di questa rapidità si rivede il gusto dell’antinarrazione, dell’hic et nunc della Poesia Visiva o della Pop Art, Giordano pure riesce ad aggiornare il medium, modellando materiali industriali, come alluminio, acciaio e fibra di vetro, con freschezza, ironia, personalità e una suggestione vagamente cyberpunk.
Nel sovraccarico lessicale del nostro tempo, in cui ogni frase deve esprimere una forma di giudizio e ogni parola deve necessariamente polarizzarsi in un campo delimitato per acquistare peso specifico e valore, Marco Giordano sembra invitare a una riflessione per sottrazione: riconsiderare la bellezza indicibile della singolarità, come quando ripetendo più volte la stessa parola la si ascolta nella sua nudità, lasciando scivolare gradualmente sensi, sottintesi, distorsioni.
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