Materia Vibrante/Vibrant Matter. Courtesy Fondazione Sandra e Giancarlo Bonollo. Photo credit: Giovanni Canova
Sandra e Giancarlo Bonollo aprono le porte della fondazione che porta il loro nome. Un gesto semplice che racconta l’entusiasmo della coppia di collezionisti in questo progetto, il desiderio di accogliere con il sorriso, di costruire una comunità viva attorno alla – nuovissima – fondazione nel cuore di Thiene, a Vicenza. Con le loro mani fanno scorrere la porta vetrata d’ingresso, da cui, già dall’esterno, si intravede un’opera monumentale al centro della prima sala.
All’interno, si resta stupiti nel ritrovarsi inaspettatamente al centro di una piccola cappella sconsacrata del Settecento. Un tempo qui pregava, nascosta dietro le grate del piano superiore, la congregazione delle Dimesse.
Oggi, quello stesso luogo diventa spazio espositivo e cornice ideale per una riflessione sul corpo, l’ascolto e il genere. L’opera che si intravedeva già dall’esterno si svela ora in tutta la sua potenza visiva: una (rivisitata) pala d’altare, popolata unicamente da figure femminili. Speech Weavers, lavoro site-specific dell’artista britannica Paloma Proudfoot, apre il percorso espositivo della prima delle due mostre, a cura di Elisa Carollo, fino al 30 agosto. Con quest’opera, Proudfoot indaga la ridefinizione dell’ascolto come gesto attivo, resistente. Un gesto che la storia ha spesso considerato passivo, subordinato, e che qui assume una nuova dignità. La pala d’altare contemporanea raffigura infatti tre donne, e invita a riflettere sull’esperienza delle Dimesse che dietro le grate erano ascoltatrici invisibili. L’opera diventa così occasione per interrogarsi sulla genderizzazione culturale di questo gesto, e sul suo potenziale sovversivo.
Oltre alla forza concettuale, colpiscono i materiali con cui Proudfoot realizza le sue opere: ceramica, bronzo, modellati con echi di una metodologia che proviene dalla sartoria. Le mani, non a caso, sono le vere protagoniste. Mani che creano, plasmano l’argilla e la accompagnano nel suo processo trasformativo, mani che raccontano un’estetica profondamente femminista e materiale. L’artista dà forma a opere che sembrano altorilievi ceramici: frammenti corporei sospesi sulle pareti che custodiscono significati da scoprire come fossero amuleti o talismani.
Le mani accompagnano il visitatore, lo guidano tra gli spazi: mani che scostano una tenda, mani riparatrici che come sarte rammendano parti del corpo ferite. Mani amputate ma resilienti, che sembrano aver subito traumi fisici, culturali, simbolici, di genere. In questo senso, risuona potente la riflessione dell’antropologa Scheper-Hughes, secondo cui «il corpo è l’archivio vivente di tutte le nostre storie, personali e collettive». Proudfoot riporta così l’attenzione sull’identità corporea delle donne e sul lungo, paziente lavoro di cura quando ci si ritrova alienate, frammentate o silenziate. Nella grazia, delicatezza e vulnerabilità delle sue figure umane si nasconde una forza profonda, capace di commuovere. Come nei lavori The Archivist II e The Archivist III (2025), in cui due volti femminili si rispecchiano da pareti opposte nell’ultima sala. Poggiano su delle buste: «Queste buste, frutto di una ricerca d’archivio, raccontavano di donne descritte solo attraverso le parole dei medici. Non avevano un volto, né un’identità che le definisse oltre la diagnosi» racconta Proudfoot. Attraverso la gestualità artistica, Proudfoot restituisce loro un volto, una storia, un tempo. In un paziente processo di riappropriazione identitaria, corporea e spaziale, costruisce un immaginario visivo e politico in cui queste donne, punto dopo punto, sutura dopo sutura, tornano ad esistere. È un lento processo alchemico di rigenerazione, lo stesso, dopotutto, che trasforma l’opaca terra in splendente ceramica.
Si prosegue nelle due sale successive, con Materia Vibrante/Vibrant Matter, a cura di Chiara Nuzzi, fino al 7 novembre, dove le opere scultoree di otto artisti aprono a una riflessione sul peso dei cambiamenti in atto sul nostro pianeta: dalla crisi climatica all’implacabile estrattivismo che riscrive le geografie del Sud del mondo, fino a immaginari futuribili antropomorfi e animali che cercano nuovi codici, linguaggi, forme di relazione ecologica. Giorgio Andreotta Calò, Jesse Darling, Bronwyn Katz, Isabel Nuño de Buen e June Crespo interrogano un ambiente eroso, sfibrato – come nella Clessidra di Calò – dove il tempo si fa materia che cola. Un ambiente estratto, cementificato, manipolato, che diventa scenario e insieme sintomo del nostro presente, da leggere, o criticare.
Giulia Cenci, Sandra Mujinga e Luca Trevisani spostano lo sguardo sull’interdipendenza tra esseri viventi, sistemi e idee. Figure post-industriali, antropomorfe, stridenti e crude si muovono nello spazio espositivo: nell’opera di Cenci si esercitano a trovare una propria andatura, in un mondo dove corpi robotici e (forse non più tanto?) alieni sembrano camminare accanto a quelli umani dei visitatori. Nuove forme di vita appaiono, vulnerabili, accasciate al suolo, pancia in alto, forse ansimanti, forse in mutazione, sicuramente vulnerabili, come nelle creature esplorate da Mujinga. In Trevisani, infine, il gesto si fa speranza: un guscio di tartaruga modellato in 3D si accosta a un calco in gesso delle sue stesse mani. Una carezza trattenuta, forse una proposta silenziosa di comunione possibile tra uomo e ambiente, dove, parafrasando il titolo, nessuno è da meno. Ancora una volta, le mani si avvicinano con discrezione a ciò che è altro da sé, in un augurio di co-esistenza equa in questo mondo che ci è solo in prestito.
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