Incommunicability is itself a source of pleasures. Installation View, The Address Gallery, Brescia
Asserire, con il titolo, che l’incomunicabilità sia di per sé un fonte di piaceri, è un ossimoro concettuale, che diventa progettuale, artistico: una metafora assertiva alla base dell’indagine di Dorota Gaweda ed Eglè Kulbokaitè sulle contraddizioni del vivere, del sentire, e sopratutto della percezione della realtà, immersi nella rete di relazione, che in primis è umana, ma ora network eteroguidato.
Nulla è come appare se si cambia la prospettiva di visione e di approccio, anche passando dall’individuale al generale. Il loro lavoro rappresenta la continuità della missione di artisti che (dal Novencento in poi) fanno della propria esperienza di vita un patrimonio – appoggiandosi alla psicanalisi e alla coscienza sociologica e storica delle relazioni – da cui guidano l’osservatore nella temperie dei dilemmi esistenziali. E in fin dei conti costituiscono anche la risultante dell’ancestrale interrogarsi sulle multiformi manifestazioni dell’essere e della realtà percepita.
In galleria le due artiste ci portano all’interno delle antinomie indagate attraverso “anamorfosi materiche” – tramite sovrapposizioni di materiali e tecniche – che, man mano si osservano le opere in sala da diverse angolazioni, svelano forme inaspettate e contraddittorie. Opere che, viste di fronte, sono di serena percezione decorativa astratta, diventano poi interrogative evocazioni quasi fantasmatiche; forme di tradizionale “delicato” richiamo femminile, sottese alla superficie dell’opera, diventano drammatiche nella trasparenza obliqua. Con un lavoro rigoroso e severo, inquadrano in alluminio doversi “layer” di grafismo non scevro di evocazioni stilistiche di ascendenza mitteleuropea novecentesca. Gli Enclosure sono grandi telai di alluminio che incorniciano pannelli di chiffon stampati, semitrasparenti, cangianti a seconda del progredire dell’osservazione intorno.
Le artiste richiamano così lo storico affermarsi delle recinzioni dei fondi agricoli e del confine tra proprietà e genti. Ma mantengono l’ambiguità, sia della possibilità di oltrepassarle – più che possibilità, del dovere a questo punto – sia della controversa convivenza fra un materiale quasi impalpabile e delicato e la rigidità dell’alluminio del telaio, quasi una corazza su un separè da boudoir.
Nella serie Ectoplasmes, più attinenti alla sostanza di quadro in appensione, il telaio incornicia tele dipinte e disegnate, alle quali, a loro volta, si sovrappongono dei veli di chiffon, delicatamente stampato. Le composizioni di immagini del quotidiano femminile, da astratte, diventano gli ectoplasmi da cui prendono il nome. Così Dorota ed Eglè ci guidano nel passare dal concetto di limite a quello del travalicarlo nel contempo: l’ossimoro è assertivo e costruttivo.
Un video dal titolo Spit and image cattura, non senza imbarazzo psicologico, nella rete intrapsichica della definizione del sé e dell’appartenenza, collocato nella sala della galleria che un tempo fu un caveau, giusta “location blindata” per la installazione.
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