Marina Abramovic, figura radicale e controversa all’interno del panorama storico-artistico internazionale, presenta i suoi nuovi lavori alla Galerie Krinzinger di Vienna, con la mostra “Energy Clothes”, a cura di Sydney Fishman. A seguito delle mostre personali del 1992, del 2012 e del 2018, dal 26 maggio al 29 luglio 2023, Abramović propone, su un’area espositiva di circa 300 metri quadrati, un corpus di lavori composto da disegni e video, fotografie e installazioni. I mutevoli registri espressivi dell’artista sembrerebbero, qui, legarsi gli uni agli altri, come ricerca che testimonia la trascendenza attraverso l’ordinario. Quest’ultimo esemplificato dalla testimonianza fotografica delle performance Rhythm 2 (1974-1994), Rhythm 4 (1974-1994), Rhythm 10 (1973-2014) e Freeing the Voice (1975-2014).
Il dialogo tra Marina Abramovic e la Galleria si origina dal rapporto di fiducia e scambio instaurato con la gallerista Ursula Krinzinger già dagli anni Settanta, in occasione della performance Thomas Lips (1975), ospitata proprio negli spazi di Krinzinger. Un’azione valsa non solo come minaccia all’integrità binaria tra interno ed esterno ma anche come messa in discussione del canonico rapporto tra performer e pubblico, che prosegue negli stessi anni in un’esposizione collettiva a Innsbruck.
Il progetto “Energy Clothes” si origina nel 2001, durante la cattedra dell’artista serba alla Fondazione Antonio Ratti di Como e poi alla Fondazione Calder di Saché. Essa consiste nella produzione di oggetti minimali “indossabili”, intessuti su fibre di seta in sette colorazioni. Si tratta di volumi puri che fungono da abiti cerimoniali, vertici di energia che assumono le sembianze di dettagli primordiali.
È un guardare alla geometria in senso cézanniano, come elemento che «Permea tutte le cose, e a cui tutto può essere ricondotto; la verità a cui tendere». Si tratta di un lavoro emotivamente evocativo, direttamente sperimentato con gli studenti, nonché indice di un’inclusione spesso saggiata dalla stessa Abramović all’interno della sua poetica.
La mostra potrebbe essere vista come un’estensione della serie Transitory Objects for Human Use. Con essa ne condivide un’intenzione: dimostrare la forza simbolica e straniante di un oggetto colto nella sua individualità, la contrapposizione che si instaura tra l’inanimato e la sua forma; il corpo come mediazione a qualcosa di “altro”. È un’esplorazione della mente e dei suoi “limiti”, tramite il corpo. Il suo tendere all’elevazione si fa possibile soggetto e mezzo per un approdo spirituale. Si indaga il concetto di fisicità attraverso la scomposizione e la ricomposizione dei suoi aspetti, in senso quasi sciamanico ma secondo un metodo che volge all’essenziale.
Tali opere, sapientemente estrapolate dall’archivio di Marina Abramovic, sono corredate dalle documentazioni fotografiche di quest’ultime, risalenti a più di vent’anni dopo. Ciò dimostra come la progettualità della creazione in questione, dove il posare si pone di fronte alla soglia performativa, si manifesti solo a seguito dell’atto esecutivo e si faccia «Trasferimento di uno stato di coscienza all’osservatore».
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