Maurizio Cattelan, Felix, 2001, Il Bel Paese, 1994. Courtesy Archivio Maurizio Cattelan. Joan Mitchell, Sylvie’s Sunday, 1976. Estate of Joan Mitchell. Installation view della mostra Dimanche sans fin, Centre Pompidou-Metz, 2025. Foto Marc Domage
Artista-curatore, artista-filosofo, artista-intellettuale, artista-comico, artista-provocatore. Che Maurizio Cattelan rientri nel novero degli artisti italiani contemporanei fra gli ultimi – o forse gli unici – a essere stati riconosciuti su scala internazionale è ormai un dato acquisito. Altrettanto ineludibile, però, è la tendenza – comune a chi scrive e parla di lui – ad accostare alla sua professione una seconda definizione, sia essa rafforzativa o riduttiva. Dimanche sans fin (Domenica senza fine), grande mostra allestita al Centre Pompidou-Metz in occasione della chiusura per restauro della sede parigina, restituisce non solo la visione caleidoscopica sul mondo di Cattelan, ma anche la natura intrinsecamente plurale della figura dell’artista, quale lui stesso incarna: una professione cangiante, che non ha bisogno di attributi accessori, poiché già comprende in sé un arcipelago di ruoli, intenzioni e dispositivi. Promossa dal museo in occasione del suo quindicesimo anniversario, la mostra è curata da Cattelan in dialogo con Chiara Parisi, direttrice del Pompidou-Metz, e sarà visitabile fino al 2 febbraio 2027.
L’architettura esagonale del Pompidou-Metz, progettata da Shigeru Ban e Jean de Gastines, non è affatto estranea alla sinuosità delle curve eccentriche che guidano verso la deriva il visitatore in Dimanche sans fin. Lo studio Berger&Berger ha ideato l’infrastruttura dell’allestimento affinché potesse svilupparsi liberamente nel museo, senza ricalcare i confini lineari e gli angoli retti dei white cubes, ma permettendogli forme amorfe. Nella mostra è possibile incontrare spazi aperti nei quali campeggiano opere monumentali, come il gatto scheletrico Felix (Cattelan, 2001), e anfratti marginali nati dall’intersezione dei più ampi, come quello che accoglie l’Angolo dei Ricordi (Cattelan, 1989). Il polimorfismo degli ambienti è seguito coerentemente dalla varietà dei lavori e dai metodi con cui sono esposti, corrispondendo ad altrettanti punti di vista da assumere per osservarli. Ci sono lavori appesi che pendono dal soffitto, Daddy, Daddy (Cattelan, 2008), e altri che tentano di raggiungerlo ancorati al pavimento, La Dolce Utopia (Maurizio Cattelan e Philippe Parreno, 1996/2025). Un celebre tappeto è affiso a parete come fosse un arazzo, Il Bel Paese (Cattelan, 1994), e un bambino su triciclo telecomandato si aggira per il piano terra, Charlie (Cattelan, 2003). Nella loro totalità sono 37 i lavori provenienti dalla fulgida produzione artistica di Maurizio Cattelan, il quale inevitabilmente è assunto come co-curatore – se non come curatore principale – di una mostra modellata dal suo immaginario. Se ogni opera è generalmente la protagonista di un sogno ricorrente dell’artista, una mostra può essere la materializzazione del sogno stesso. In questo contesto, affiancare all’artista una figura curatoriale rischia di apparire superfluo, a meno che non sia in grado di apportare un contributo autentico; altrimenti, la professione del curatore si ridurrebbe a un ruolo gestionale privo di drammaturgia: un tecnocrate dell’esposizione.
Oltre alle 37 opere di Maurizio Cattelan, sono 335 quelle provenienti dalla collezione del Centre Pompidou. Questa mole smisurata, parte di un nucleo prestigioso destinato a viaggiare durante i cinque anni necessari a restaurare l’edificio parigino progettato da Renzo Piano, ha richiesto una squadra completa per essere gestita nel momento dell’ideazione della mostra. A questo scopo hanno lavorato, al fianco di Cattelan e Chiara Parisi, anche Sophie Bernal, Elia Biezunski, Anne Horvath, Laureen Picaut, Zoe Stillpass e Marta Papini. L’infrastruttura filosofica di Dimanche sans fin, della quale Cattelan è principale autore, prende le sembianze di un abbecedario, omaggiando Gilles Deleuze. Ognuna delle ventisei sale corrisponde a una lettera dell’alfabeto, associata al titolo di un film, una citazione o un termine estemporaneo, oltre a una ventisettesima aggiunta, la domenica. Non è un caso che il testo critico contenuto nel catalogo della mostra, firmato da Chiara Parisi, inizi parlando non solo dell’alfabeto, ma anche del tempo, di come queste due convenzioni siano tali, e di come in quanto tali possano essere sovvertite. Superando i limiti delle unità minime di cui si compongono il linguaggio e lo scorrere della vita, si possono intuire corrispondenze inaspettate, distanti dai criteri accademici. Questo è un metodo soggettivo, che in quanto tale potrà risuonare con altre soggettività, dando origine a pensieri liberi e collaterali.
Avviene, per esempio, nella sala D – Le début de la guerre restera secret, il cui titolo riprende una frase di Jenny Holzer. L’assurdità di un mondo che nega la propria condizione bellica viene qui messa in scena senza didascalismi. Sunday (Cattelan, 2024), una serie di lastre metalliche colpite da proiettili e successivamente dorate, convive con Round Table (Chen Zhen, 1995), installazione emblematica di una tensione interculturale irrisolta, che moltiplica i punti di vista sulla possibilità di un dialogo. In O – Odyssée, invece, il riferimento non è all’epopea omerica, ma al film 2001, Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Cattelan indaga la traiettoria incerta del progresso accostando una parete densa di oggetti appartenuti ad André Breton a un bassorilievo della Gradiva (Anonimo, IV secolo a.C.), prestato per l’occasione dai Musei Vaticani, rendendo manifesta la persistenza simbolica di immagini e feticci lungo le orbite culturali della storia. In entrambi i casi, come nel resto della mostra, l’effetto è quello di un cortocircuito semantico.
La libertà associativa che struttura Dimanche sans fin si estende, infine, anche alla funzione del museo, che qui rinuncia alla propria autorità ordinatrice per farsi luogo permeabile, praticabile e domestico. È una proposta che si distacca dalle consuetudini museografiche, e che richiama, seppur da prospettive differenti, esperienze come Time is Out of Joint, la mostra curata da Cristiana Collu alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. In quel caso, la riorganizzazione delle collezioni secondo criteri non cronologici inaugurava un dispositivo espositivo radicale, che tuttavia non è riuscito a conservare nel tempo la propria tensione trasformativa, rimanendo immobile per troppo tempo. Dimanche sans fin si colloca su questo stesso crinale incerto: non è chiaro se riesca davvero a ricucire il legame tra museo e quotidianità, ma certamente solleva il problema, suggerendo un modello di museo in cui le opere non appaiono come presenze separate e immutabili – poste su un piedistallo – ma come situazioni capaci di intrecciarsi all’esperienza del tempo vissuto. In questa direzione, più che fornire risposte, la mostra apre interrogativi sulla possibilità, oggi, di un’istituzione che non neutralizzi l’opera nel dispositivo museale, ma la lasci agire nella vita.
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