Wounded Words Wounding Words, installation view. Biblioteca Capitolare, Verona, 2025. Ph. Ennevi Photo
Nella Biblioteca Capitolare di Verona, la più antica ancora attiva al mondo, la parola torna protagonista dopo millenni. Tra le sue sale di pergamene e inchiostri millenari, la mostra Wounded Words Wounding Words, curata da Marta Cereda per il programma Progetti in Città di ArtVerona 2025, indaga il potere rivoluzionario e ambivalente del linguaggio: una forza che costruisce, e che distrugge. Luogo simbolo della memoria scritta europea, la Capitolare custodisce oltre 1200 manoscritti, alcuni dei quali ancora segnati dalle bruciature del bombardamento del 1945. In quelle ferite materiali di pagine strappate e tracce di schegge conficcate, si annida la stessa tensione che anima le opere contemporanee in mostra, in un dialogo evocativo tra presente e passato. La parola, fragile e potente, si rivela come terreno dove verità, ideologia e violenza convivono in un equilibrio instabile.
Il percorso riunisce artisti, tra maestri del ‘900 e voci contemporanee, provenienti da collezioni private e dalle gallerie partecipanti ad ArtVerona: Vincenzo Agnetti, Mirella Bentivoglio, Alighiero Boetti, Marcel Broodthaers, Marcello Carrà, Dina Danish, Tacita Dean, Gaia De Megni, Marco De Sanctis, Marlene Dumas, Milli Gandini, Alfredo Jaar, Maria Lai, Sabrina Mezzaqui, Rebecca Moccia, Shirin Neshat, Man Ray, David Reimondo, Micol Roubini, Sarenco, Markus Schinwald, Marinella Senatore, Giulio Squillacciotti, Armando Testa, Tobias Zielony, Andrea Zittel. Sculture, video, installazioni e azioni performative che interrogano il linguaggio come gesto radicale, sovversivo e capace di generare riflessioni.
Nel primo ambiente, il grande salone l’ingresso al piano nobile, colpisce 20 anni di Alfredo Jaar, opera di un rosso primario che trasforma l’incarcerazione di Antonio Gramsci in una meditazione sulla censura e sulla resistenza del pensiero: vent’anni di silenzio forzato diventano l’immagine stessa del potere che teme le parole più delle armi. Accanto, l’opera What has left since we left, di Giulio Squillacciotti, dove l’interpretazione diventa un territorio incerto, in cui le lingue si sovrappongono e si fraintendono: tra diversi linguaggi, ogni traduzione è un atto di perdita, ogni parola uno slittamento di senso. Nella parte opposta del salone, Le parole che non esistono di David Reimondo esplora il confine tra linguaggio e significato, creando un archivio monumentale di sedici volumi, ciascuno di mille pagine, che raccolgono parole impossibili generate da un software. Un’opera che trasforma l’assenza di senso in una biblioteca fisica, invitando a riflettere sulle potenzialità e sui limiti della parola stessa.
Negli ambienti successivi, particolarmente evocativa l’opera Alphabet pour adultes di Man Ray che trasforma l’alfabeto in uno strumento di analisi culturale: nella lettera “A” di “Avoir”, per esempio, una mano maschile che afferra quella femminile diventa un gesto che interpella lo spettatore sul controllo, sul possesso e sulle dinamiche di potere insite nella cultura odierna. Ogni lettera dell’opera, tra ironia e provocazione, invita a riflettere su come il linguaggio stesso possa veicolare ruoli sociali, norme e gerarchie. Non limitandosi a giocare con le forme, Man Ray mette in scena il linguaggio come specchio delle tensioni culturali e delle relazioni di dominio. Concludono il percorso espositivo i Telegrammi di Vincenzo Agnetti: «Diverse parole insieme formano un racconto cioè un oggetto poetico»; «Diverse parole insieme formano una denuncia, cioè un oggetto politico». Qui le parole emergono per la loro capacità di trasformare il mezzo più essenziale di comunicazione in un campo di riflessione. Decostruendo il telegramma, l’artista ne svela struttura e limiti, e mostra come delle stesse parole messe assieme – pur minimali e rapide – possano essere strumenti di connessione e aggregazione (un gesto poetico), ma anche di accusa e controllo (un gesto di denuncia).
Ecco che, all’interno della Biblioteca Capitolare, le parole antiche dei codici e quelle nuove delle opere si sovrappongono, risuonando come echi di resistenza. Wounded Words Wounding Words riflette così su come la parola possa ancora essere gesto rivoluzionario. In un tempo di linguaggi accelerati, di comunicazioni che evaporano in un istante, la mostra restituisce al verbo il suo peso specifico, la sua responsabilità politica e poetica ricordandoci che la parola, dopotutto, resta l’unico mezzo che abbiamo per provare, ogni giorno, a scrivere il presente.
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