Un Manifesto senza Dimensioni, 2025, installation view at Metronom, photo credit Bruno Cattani
Arte che si compie, si consuma e si trasforma. Un Manifesto senza Dimensioni, mostra curata da Marcella Manni e dedicata alle figure di Cesare Pietroiusti e Cesare Fullone, mette in discussione apparenze e presunte immutabilità: la doppia personale, ospitata dallo spazio Metronom di Modena e presentata in occasione del Festivalfilosofia 2025, ruota attorno al tema centrale della manifestazione, Paideia (παιδεία). La galleria ha invitato Pietroiusti e Fullone a reinterpretare in modo inedito tale percorso formativo e trasformativo, tanto fisico quanto culturale, risalente alla Grecia antica.
L’esposizione richiama nel titolo Bruno Munari e ne amplia la riflessione su cornice e contenuto: l’opera qui non è costretta a dimensioni prestabilite e mette in crisi attese e convenzioni legate a un certo tipo di “contenitore” quale può essere uno spazio espositivo o una cornice.
Il percorso di visita diventa così narrazione di un viaggio che prende avvio da Disegno Incompiuto, opera inedita di Cesare Pietroiusti. L’installazione si compone di 400 fogli disposti a coprire un’intera parete, sui quali sono state impresse forme dai toni caldi e bruciati tramite la tecnica del “fuoco su carta”. La scelta di usare fogli Old Mill, resistenti al fuoco, rivela la volontà di testare i limiti di un materiale solitamente percepito come delicato e infiammabile, tracciando sulla superficie nubi e scintille con l’uso di fiammiferi e candele.
A ogni visitatore è data la possibilità di portare a casa uno dei fogli ma non senza conseguenze: l’artista invita a ricoprire un ruolo attivo all’interno del processo artistico, poiché i disegni messi in mostra, come indicato dal titolo stesso, sono da intendersi “incompiuti”. L’atto finale chiesto allo spettatore è quello di bruciare il disegno prescelto, azione necessaria perché questo possa diventare opera d’arta vera e propria.
La curatrice non manca di spiegarci che «Quello che Pietroiusti suggerisce è un ultimo passaggio affatto banale, perché chiede al visitatore di far passare la propria opera da una dimensione tangibile, fisica, che ha una sua riconoscibilità, a un altro stato fisico, diventando cenere. Questa cenere diventa, a quel punto, l’opera. Ma cosa se ne potrà “fare”, come verrà esposta, presentata, conservata, custodita? Come ci si relazionerà con questo nuovo oggetto? Ogni volta in cui Pietroiusti realizza una installazione di questo tipo, genera stimoli e domande diverse».
La formazione psichiatrica di Pietroiusti, capostipite italiano dell’arte relazionale, appare evidente nel tentativo di responsabilizzare il visitatore e di instaurare con lui questo rapporto in continua evoluzione. Chi si trova davanti a Disegno Incompiuto vive l’indecisione della scelta e la sorpresa di trovarsi di fronte a un gesto inaspettato, quello del donare, cui solitamente non si è abituati nel contesto di una mostra d’arte.
Quattro mappe concettuali si affiancano ai disegni fornendo nuove chiavi di lettura in merito al significato di valore, proprietà, interesse e soprattutto del dono. Pietroiusti si interroga sui meccanismi sociali ed economici di costruzione dell’oggetto artistico all’interno della cultura occidentale, richiamandosi a una tradizione di pensiero che va da Simmel a Derrida. Non manca un accenno alle contraddizioni del mercato dell’arte, con la messa in vendita delle mappe concettuali, incorniciate e ingrandite, a fronte della serie di opere d’arte su carta distribuite gratuitamente a chiunque varchi la soglia.
A contrapporsi a queste quattro opere-didascalia, si sviluppa lungo tutta una parete l’opera Occidente di Cesare Fullone, una linea del tempo costituita da 25 riproduzioni di navi il cui obiettivo è ricostruire la storia dell’Occidente attraverso l’evoluzione del viaggio per mare. A partire dalle prime imbarcazioni greche, si susseguono modellini realizzati in cemento che arrivano fino alle più recenti navi a motore, caratterizzate da una sempre maggiore ricchezza di tratto e di dettaglio.
A queste riproduzioni si affiancano barche a vela «Più leggere e appena accennate». Se le prime ci restituiscono una visione d’insieme della storia collettiva, le seconde rappresentano una dimensione più intima, popolata da riferimenti biografici dell’artista, e si fanno veicolo di trasmissione identitario e costitutivo. «Ciò che siamo noi nel presente» infatti, è «frutto di un lungo percorso di costruzione di identità, che è sì personale, ma anche ottenuto tramite un passaggio di competenze e di un sistema di valori che in qualche modo introiettiamo, alimentiamo e trasmettiamo come comunità. Con questa idea di movimento e di viaggio, il mezzo di trasporto simboleggia dove siamo arrivati e dove stiamo andando».
In questa prima sala si percepisce con forza il contrasto materico tra i lavori esposti. Se la carta si fa resistente ai giochi del fuoco, senza mai veramente bruciarsi, il cemento si lascia plasmare come un materiale scultoreo. Nell’opera di Fullone emerge di conseguenza tutta la fragilità di un materiale solitamente apprezzato e utilizzato per la sua solidità, qui usato per dare corpo a navi che galleggiano nell’aria.
Il tragitto di queste ultime sulla parete accompagna il visitatore verso uno spazio esterno della galleria, un «Luogo Pazzesco» nato durante la pandemia. Qui Cesare Fullone ha scelto di comporre la scritta Paideia utilizzando sassi e pane raffermo: due elementi di uso comune, che evocano ancora una volta sensazioni opposte. Da un lato la pietra, materiale povero ma solido, che permane; dall’altro il pane, fragile e deperibile, ma anche dotato di grande forza simbolica e rituale in quanto elemento alla base della nostra sopravvivenza.
Una installazione precaria che cambia natura, composizione e stato con il passare delle settimane. Il pane si secca, ammuffisce, assume il colore scuro della pietra e viene in qualche modo inglobato in essa, mentre il sasso si appropria della cromia del pane, abbandonando il biancore originario per tingersi di giallo.
«Entrambi gli approcci – ci fa notare la curatrice – esplicitano quello che è un terreno comune tra i due artisti, una eredità culturale condivisa che porta a riflessioni che comunicano tra loro. Le due installazioni affrontano una dimensione di mutabilità che progredisce nel corso della mostra stessa: quello che avrà visto un visitatore il primo giorno, non sarà la stessa cosa che potrà vedere tornando più tardi a visitare lo spazio».
Come i sassi e il pane di Fullone subiscono il passare del tempo, infatti, anche la parete di fogli di Pietroiusti si svuota progressivamente, nel corso di un doppio processo da intendersi come parte integrante dell’esperienza artistica e del processo trasformativo che è la Paideia stessa.
Una mostra da visitare più di una volta, dunque, pensata per darsi l’occasione di osservare e accettare il cambiamento. Come ribadito da Marcella Manni, «Questa è anche una riflessione su tutto ciò che noi percepiamo come immutabile, granitico, in un certo senso “certo”, e che in realtà, tutto sommato, non è mai né così granitico né così certo, ma soggetto a variazioni continue».
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