Trame di Resistenza, exhibition view, Universo Factory, Vittorio Veneto, 2025
L’ex setificio che oggi ospita Universo Factory trattiene nelle sue pareti, ancora umide di passato, una storia che non si è mai dissolta. Ci sono luoghi che generano le opere che ospitano come se la loro sostanza porosa, intrisa di gesti dimenticati, chiamasse alla vita nuove narrazioni. Trame di Resistenza nasce da questa chiamata, da una vibrazione che si erge dal suolo, dalle fibre consumate del tempo, dalle mani invisibili che hanno intrecciato fili, attese, premura. È lì che la memoria diventa materia e che il suono dei telai si trasforma in battito.
In questa frequenza mnestica la collettiva delle artiste Chiara Cescon, Noemi Galatà, Irene Gris, Alice Moschetta ed Elena Silvia Sperandio, a cura di Simone Ceschin, affonda e dirama le proprie tensioni, trasformando l’architettura in un organismo rizomatico, un corpo sensibile che continua a generare memorie e percezioni.
Le opere dialogano con lo spazio espositivo proseguendone la respirazione. Le stoffe, i nodi, le trasparenze non sono semplici citazioni tessili, sono cellule che proliferano, si ramificano, si annodano alle pareti come vene. All’interno di tale pulsazione condivisa l’arte si misura con la durata, con la sopravvivenza, con l’atto di resistere non come opposizione ma come custodia.
Irene Gris tesse e ritesse la memoria transgenerazionale come gesto radicale. Nei suoi lavori il filo diventa atto di cura, una lingua senza parole che sutura il tempo. Il suo fortino domestico, costruito con tovaglie appartenute alle generazioni precedenti, si erge come ventre di tessuto, rifugio e ricordo insieme. È un luogo che accoglie e protegge, ma anche un atto di restituzione di un’infanzia che ritorna per guarire la storia. Dentro questa architettura fragile si respira la potenza di ciò che è intimo, una resistenza che non urla, che si manifesta nell’attenzione, nel tempo lento, nell’affetto. I suoi capelli e quelli della sorella conservati, intrecciati, archiviati in barattoli o pendenti dalla parete diventano genealogie emotive, mappe di un archivio vivente che non vuole essere chiuso ma continuamente riscritto.
Accanto a questa costellazione di gesti sororali, Chiara Cescon fa germogliare paesaggi che nascono dalle crepe, dalle ferite delle pareti stesse. I suoi giardini sospesi non appartengono al mondo reale, sono visioni che emergono dal muro come licheni preziosi. Le superfici consunte del setificio si fanno terreno fertile, fessura in cui il filo attecchisce come una pianta medicinale. Le opere dell’artista sembrano lenire, avvolgere, curare, bende delicate che toccano le cicatrici dello spazio e le trasformano in paesaggio. In questa antinomia tra il visibile e l’interiore affiora una continuità con la materia del luogo: ciò che era produttivo diventa poetico, ciò che era ferita si trasfigura in respiro.
Alice Moschetta lavora invece sul corpo e sulla sua celata trama emotiva. Le sue figure sospese nel silenzio sembrano provenire da una soglia indefinita tra intimità e collettività, risuonando nello spazio e al contempo trasformandolo in un ordito da percorrere. Qui la fragilità è gesto di forza, la capacità di riconoscersi vulnerabili in un mondo che chiede costantemente prestazione e resistenza. L’artista ribalta la semantica della debolezza facendo della delicatezza un luogo di incontro, una possibilità di comunione.
A un certo punto lo sguardo si solleva, guidato dalle installazioni di Elena Silvia Sperandio, che attraversano il soffitto come filigrane d’aria, dinamiche latenti che sfidano la gravità e orientano verso una dimensione di sospensione percettiva, dove il peso della materia si trasforma in eco contemplativa. In questo moto ascensionale, il setificio smette di essere fabbrica e diventa cattedrale laica. Lì tra le travi si apre uno spazio spirituale, un varco in cui la pesantezza della storia trova redenzione nella leggerezza del pensiero.
Noemi Galatà, infine, annoda pazientemente i suoi fili sottili come una ricamatrice del tempo. Ogni nodo è una lesione che si cicatrizza, un gesto premuroso che rallenta il mondo. Nei suoi lavori la manualità è un rito di resistenza: il filo si tende, si torce, si offre alla lentezza come forma di cura. Le sue trame sono reti che trattengono, che proteggono, che ricordano.
Tutto all’interno della mostra sembra muoversi secondo una logica orizzontale, senza centro né gerarchia, come un campo energetico che si espande sotto la superficie del luogo. Nessuna opera domina, nessuna voce si impone. È un paesaggio corale fatto di respiri, di incontri, di intimità condivise, dove lo spazio diventa complice, medium, corpo. Ogni fibra dell’edificio risponde alle opere come se riconoscesse in esse la propria eredità sublimata. Dove un tempo il rumore dei telai scandiva la produzione seriale, oggi un’altra trama si intreccia, quella della memoria che si ricuce, della fragilità che si fa forza, della cura come gesto di sopravvivenza.
In Trame di Resistenza la materia non è mai inerte, è entità cangiante e preghiera, mentre l’arte continua il lavoro del luogo tessendo, annodando, riparando. In questa continuità invisibile si manifesta la sua potenza critica: restituire valore alla lentezza, alla delicatezza del gesto, al legame. Resistere non è opporsi, ma mantenere vivo ciò che rischia di dissolversi, tessere per non dimenticare.
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