Categorie: Musica

Rest in (Neapolitan) Power: l’ultimo saluto a James Senese, nero a metà

di - 29 Ottobre 2025

È un immenso patrimonio quello che ci lascia James Senese, scomparso il 29 ottobre 2025 all’ospedale Cardarelli di Napoli, dove era ricoverato dal 24 settembre per l’aggravarsi di una polmonite. Con lui se ne va non solo un protagonista del Neapolitan Power ma anche uno di quei “figli della guerra” nati a Napoli dal 1945 in poi e costretti a portare per primi lo stigma del diverso in una città ferita e in cerca di una nuova identità. Nelle sue strade, in quegli anni, si riversano i soldati alleati e, in particolare, la 92ª divisione di fanteria americana, conosciuta come i Buffalo Soldiers, truppe composte interamente da afroamericani.

James Senese allo Stadio San Paolo, Napoli

Dall’unione di uno di questi con una donna del posto nasce James, nel quartiere di Miano, a nord della città, al confine con Secondigliano e Scampia. Luoghi difficili, dove nel 1945 si vive alla giornata e, soprattutto, di ciò che i militari distribuiscono: cioccolata, pasta, sigarette.

Grazie a un 45 giri ascolta per la prima volta il sassofono. Percorre chilometri fino a Piscinola per trovare un maestro e da lì comincia la sua formazione. Dopo qualche anno, il primo degli incontri decisivi per la sua carriera: conosce Mario Musella, cantante e bassista, come lui un “figlio della guerra”, nato da una donna napoletana e un militare di origini cherokee.

Per mantenersi, James fa di tutto — cameriere, muratore, benzinaio, pittore, operaio in una fabbrica di scarpe — quello che basta per vivere e permettergli di partecipare alle jam sessions che iniziano a prendere piede in città. In quegli anni, a Napoli, il jazz – vietato dal regime fascista, che ne aveva persino tentato una italianizzazione come “giazzo” – torna a risuonare nei locali del porto, grazie ai marines americani. È lì che una nuova generazione di musicisti si incontra, si riconosce e sogna di fare della musica un mestiere, oltre che una vocazione.

La prima grande esperienza è quella con gli Showmen, gruppo con cui Senese vince subito un Cantagiro grazie al brano Un’ora sola ti vorrei. Un successo che si fonda anche sul frontman Mario Musella, la cui voce potente fonde sogno americano e cazzimma napoletana in chiave soul. È sempre lui che in seguito ispirerà il titolo di un futuro album leggendario, Nero a metà, di Pino Daniele. Ma la parabola degli Showmen si chiude presto: Musella lascia il gruppo per tentare una carriera solista che non decollerà mai.

Senese, dopo vari tentativi di rimpiazzarlo, decide di sciogliere la band e prendere una strada nuova, sperimentale e incerta, come quella fangosa che si intravede nella copertina di Campagna, realizzata dal fotografo Aldo Bonasia. Ha solo 23 anni Aldo, quando, da Milano, viene invitato a trascorrere una settimana in provincia di Napoli con un gruppo appena nato: i Napoli Centrale. Con Senese ci sono Franco Del Prete, batterista visionario, e altri musicisti che fondono progressive e jazz. Uno su tutti, lo statunitense Mark Harris, compositore e tastierista.

Le doti canore di Musella fanno posto al dialetto ruvido e feroce di James: Campagna è un disco infuocato, dominato da lunghe improvvisazioni e ritmi nervosi, una tessitura continuamente strappata dalle incursioni del napoletano e dei riff di sax. Quando la voce entra, è come lo squarcio di luce sul paesaggio della copertina: non racconta, rivela. È appunto una rivelazione quella dei Napoli Centrale, che da allora continua ad affascinare gli audiofili, i collezionisti e gli ascoltatori di oggi, una di quelle punte di diamante nella produzione italiana la cui lucentezza non è stata intaccata.

La campagna del titolo e della foto di Aldo Bonasia sembrerebbe l’ideale continuazione di quella che si intravede in Anima Latina, altro grande disco sperimentale uscito l’anno prima, il 1974, che Lucio Battisti stesso definì sperimentale e di rottura con la sua precedente produzione. Ma se i frammenti fusion presenti in Battisti sono in fase embrionale, in Campagna raggiungono maturità e forza corrosiva, dettata anche dalla violenza di quella periferia, totalmente diversa dall’idealizzazione sudamericana di Battisti. Una periferia fatta di padroni e braccianti, il luogo archetipico dove si affrontano miseria e magia, lavoro e festa. Come dirà lo stesso Senese: «Il mio sax porta le cicatrici della gioia e del dolore della vita».

Da sinistra: Tullio De Piscopo, James Senese, Pino Daniele e Tony Esposito, 1981

Attratto da quelle sonorità al tempo stesso viscerali e raffinate, nel 1977 un giovanissimo Pino Daniele bussa alla loro porta. Non c’è posto per una chitarra: se vuole unirsi alla band, Pinotto, questo il suo nomignolo all’epoca, dovrà suonare il basso. Detto, fatto: rimpiazzato Tony Walmsley, il gruppo entra in studio per registrare Qualcosa ca nun mmore, un arcipelago sonoro che si gonfia e si restringe, dal quale emergono tamburi tribali, spoken poetry, art-rock e jazz. Il suo layout rosso su sfondo nero è il sipario ideale su cui si chiude la stagione d’oro dei Napoli Centrale.

Poco dopo, la morte prematura di Musella, a soli 34 anni, segna profondamente James. Tocca adesso a Pino Daniele traghettare la vecchia generazione verso nuove rotte: figlio non della guerra ma di Napoli stessa, diventa la voce di una città capace di mescolare dolore, ironia e resistenza: l’essenza del jazz partenopeo. Dal 1979, con l’album Pino Daniele, il sassofono di James diventa inseparabile dalle sue canzoni. Insieme daranno vita a un linguaggio nuovo, globale, che unisce blues, tradizione e ritmo mediterraneo: il Neapolitan Power.

In quel periodo nasce il cosiddetto supergruppo: Joe Amoruso, Rino Zurzolo, Tullio De Piscopo, Tony Esposito. Artisti che hanno tutti dei notevoli progetti solisti e che decidono per la prima volta di unirsi sotto un unico nome, quello di Daniele. Nasce così una rete di collaborazioni che nel tempo toccherà nomi come Wayne Shorter, James Brown, Gerry Mulligan, Don Cherry e Bob Marley.

Napoli Centrale

Il legame con l’America rimane ma filtrato da distanza e consapevolezza, come il rapporto irrisolto con suo padre, che James cercherà solo una volta, senza successo. La sua famiglia vera è quella della musica: quella del tour di Piazza Plebiscito nel 1981, tappa finale del Vai mo’ tour. 200mila persone assistono alla consacrazione del supergruppo. In una ripresa a bordo del bus della tournée, si ascolta James dire alla band: «Wagliù, verimmo ’e fa ’na bella figura a Napule…hadda essere pesante!». Il resto è storia.

Una storia che passa anche dal cinema: indimenticabile lo sketch con Lello Arena in No, grazie, il caffè mi rende nervoso, dove Senese interpreta se stesso, scorbutico e spazientito dalle domande inopportune di un giornalista impacciato, interpretato dallo stesso Arena. Più tardi appare anche in Una festa esagerata di Vincenzo Salemme, sempre con quella ruvida ironia che lo caratterizzava.

E ancora, nel divertente documentario Harlem Meets Naples (1987), scambio culturale tra Napoli e New York culminato con un concerto all’Apollo Theatre di Harlem, insieme a Edoardo Bennato, Fausta Vetere, Tullio De Piscopo e altri, in cui lo osserviamo fare battute, parlare un misto di napoletano e inglese, camminare per le strade di Harlem, dove intravede la stessa Napoli indomabile e contraddittoria che ha rappresentato per tutta la vita: difficile, emarginata ma capace di difendersi con la propria voce, di rendere speciale il poco che ha.

James Senese ed Enzo Gragnaniello

Con lui si chiude quell’epoca straordinaria dove la rivalsa artistica non soggiaceva all’estetica seduttiva delle storie instagram ma era fedele a una necessità, un’urgenza selvaggia che non aveva paura di mettere in mostra le sue brutture ma anche il suo enorme talento e, con esso, rivendicare un diritto a essere amati a prescindere dalla pelle, dal reddito e dal numero dei follower.

Perché siamo tutti, chi più e chi meno, neri a metà.

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