Rosa. Accogliente. Sicuro. Lo spazio, ricreato a sua misura da Luigi De Simone (Napoli, 1970; vive tra Napoli e Berlino) nel palpitante cuore partenopeo –la Sanità– riceve lo spettatore come un grembo materno. In barba al glamour e al luccichio di tanta arte coeva e alla pallida asetticità di molti luoghi espositivi che –afferma l’artista– “respingono il fruitore ad una visione di superficie”, l’opera di De Simone si tinge del tono aranciato della luce di un neon e si sublima nella voce narrante di Carmelo Bene. Impalpabili presenze che fanno da amalgama ad una mostra concepita per piccoli nuclei. L’ambiente è avvolto, avviluppato, saturo di colore e poesia. L’invito è ad entrare, a diventare parte del luogo, condividendone le emozioni. Ogni oggetto in questa camera si carica di simboli e di trepidazione.
Una sedia Bauhaus, vuota -da cui proviene la voce del carismatico affabulatore- racconta la storia di un Pinocchio sfuggente e recalcitrante ai doveri della vita, incarnando l’eterna e condivisa brama di restare fanciulli. Favola di libertà, di cui tutti, una volta seduti, potremmo farci interpreti. Giusto il tempo di una pièce, poiché quel ruolo si scontra con un’immanenza che puntualmente disillude. E così, l’incanto della fiaba si riversa in un “Campo dei Miracoli” dove la fiammella di una candela, tenuta in equilibrio su una pietra grezza, rischiara un accumulo di noccioline. Disvelamento di desideri moltiplicati all’infinito e mai uguali, semplici ed elementari, come i materiali che compongono l’installazione.
Un monito a non impelagarsi in una smania di possesso tout court, a non perdere di vista i veri valori dell’esistenza. Barlumi di meditazione irradiati da un’Abatjour, trittico di lampadine che compone una forma inequivocabilmente fallica, affiancato ad un piedistallo foderato di velluto, nero come la morte. In bilico tra eros e thanatos, questa ironica lampada perde la sua funzionalità per indurre alla riflessione, senza piombare, però, in una tediante seriosità. Perché, in fondo, il discorso dell’artista è volutamente discreto, poco invasivo. Suggerisce, senza imporre, lasciando aperte infinite possibilità di scelta. Un pensiero magistralmente espresso dalla decisione di celare dietro una cortina il video di uno stormo che, volteggiando, disegna nel cielo geometrie umanamente incomprensibili. Da spiare attraverso un foro ritagliato nella tenda. Volontà di non obbligare ad un’incombente presenza fisica che culmina in una serie di performance “solitarie”, eseguite –dice– “con foga e impeto” ma raramente documentate.
Due scatti in mostra le testimoniano. In entrambi, il volto di De Simone è trasfigurato, ora dipinto di bianco come una maschera tribale, ora abbandonato in un urlo liberatorio. Una veemenza trattenuta tra le mura domestiche, intima, come intimi sono i delicati acquerelli che istoriano le pareti di malinconici ed effimeri personaggi-fiammifero, emblematicamente chiamati match. Richiamo all’idea di un incontro/scontro, come quello che si consuma a Supportico Lopez. Tra l’ospitalità del “nido” edificato dall’artista e la voracità di ciò che è aldilà di esso.
mara de falco
mostra visitata il 28 giugno 2007
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buona mostra e intelligente artista
concordo. una delle cose più convincenti viste quest'anno a Napoli
Per Supportico Lopez si conclude una stagione ad alti livelli. Confidiamo per il futuro.
la tua arte non penetra diretttamenta in ognuno di noi cercando il significato delle espressione della vita