Il lungo corridoio che attraversa gli appartamenti storici della Reggia di Caserta, col mobilio classicheggiante e i dipinti di
Hackert alle pareti, appare un’indovinatissima cornice per la bella mostra che racconta la pittura italiana del XIX e XX secolo, per la quale spazzar via i rottami di una cultura scaduta non era più importante del ritrovarne le premesse.
La mancata adesione dei maestri italiani agli aspetti più esasperati dell’esperienza romantica non è, infatti, legata alla pesante eredità neoclassica; piuttosto è proprio col recupero di artisti veramente e genuinamente antichi che la pittura italiana si costruisce un proprio romanticismo, confacente alla storia pre e post unitaria, dove le frammentarietà geografiche a lungo tempo mantenute sapranno esser superate dai legami e dagli scambi tra le diverse scuole artistiche. Oggi quel sodalizio si ripete nel gemellaggio tra Caserta e i Musei Civici pavesi, da cui provengono gli
essay dell’arte nostrana in mostra.
La sodezza della pennellata di
Gaetano Fasanotti sembra esser molto lontana dalla rapidità del gesto impressionista e la liquidità dei paesaggi di
Pietro Ronzoni più vicina alle esperienze di
Hayez, mentre l’intenso luminismo dei tramonti ricorda certe arditezze di
Correggio e
Parmigianino.
Pur consapevole della sua storia, l’arte italiana non si arrocca sui baluardi dell’estetismo passato e rivela un certo europeismo nella predilezione per lo spazio urbano mostrata da
Pietro Michis e
Angelo Inganni, oppure nei vaporosi cromatismi dei paesaggi campagnoli inumiditi dalla nebbia del lombardo
Pompeo Mariani. Fuori dell’Italia e dentro l’Italia, l’arte coniuga orgoglio nostrano e ammirazione esterofila, che si fa più evidente negli impressionismi di
Oreste Albertini – in
Tramonto sul Generoso, l’artista utilizza la superficie scabra della preparazione come mezzo per tridimensionalizzare il quadro e aiutare la pastosa e arruffata materia coloristica a sgretolarsi ulteriormente – o nella moderna veduta di
Volpedo che
Giuseppe Pellizza realizza come se osservasse il profilo della città dalla lente circolare di un cannocchiale.
Lo strabismo dei maestri ottocenteschi non è grigio camaleontismo, che inevitabilmente evolve in uno sterile eclettismo senza possibilità di definizione; piuttosto si trasforma in uno stile di volta in volta unico, capace di coniugare stimoli diversi, da cui generare una propria autonoma sensibilità estetica. Lo vediamo nelle donne di
Michetti e
Agnolo Tommasi: donne consapevoli, impegnate, lavoratrici, donne di un realismo che non è d’impressione diretta, ma derivato da un sistema di messa a fuoco e di ripresa del dato effettivo.
Le
femmes dei maestri italiani sono poco ciarliere e ammiccanti, lette in chiave politicamente polemica piuttosto che inserite nell’atmosfera
bon ton dei salotti parigini, ma non per questo meno sensuali.
La Modella di
Giuseppe Amisani sostiene fieramente lo sguardo dell’“interlocutore”: la sua bellezza sfacciata è fatta di occhi languidi, labbra turgide che prepotentemente emergono come rettangoli di colore dal fondo mobile e dinamico dello spazio sfaldato.
Un’intera sala è invece dedicata alla “produzione rosa” di
Zandomeneghi, forse per meglio evidenziare l’autonomia del romanticismo italiano da quello francese, con un artista che fu amato dai
parisiens e amico di
Degas. Le donne di Zandò non ammiccano allo spettatore come le navigate
chanteuses parigine ma, riprese di spalle, appaiono del tutto inconsapevoli di esser spiate, e per questo più naturali. Dietro un fuggevole sguardo perso nel vuoto, seguitano a custodire il mistero e le affascinanti complicanze dell’universo venusiano.