Categorie: Personaggi

FINALMENTE MACRO

di - 12 Marzo 2008

Il suo lavoro spazia da progetti architettonici a installazioni, che rappresentano vere e proprie opere d’arte, fino al design. Ritiene che il museo di Roma sia un semplice intervento architettonico o un progetto che si colloca al confine tra più discipline?
Il Macro comprende elementi che motivano e corroborano la mia architettura. In primo luogo, un museo d’arte contemporanea non è un’opera d’arte, non può esserlo. È un’opera d’architettura, ovvero uno spazio, o meglio, un insieme di spazi che permettono la presentazione di opere d’arte. È per questo che ci siamo dovuti rendere talvolta neutri (nelle sale espositive) e talvolta orientati al movimento (nei percorsi). Tuttavia, anche se tutto sembra essere in movimento nello spazio a causa delle passerelle, delle scale, degli ascensori; l’architettura permette una concentrazione, un’intimità. Lascia che il visitatore possa rallentare il suo percorso.

Signora Decq, lei è sempre più legata al contemporaneo…
Il mio interesse per l’arte contemporanea non cessa di crescere. Colleziono, realizzo gallerie d’arte, faccio installazioni. E tutto già da molto tempo. Ultimamente mi si è chiesto di esporre in prima persona. Non ho voluto presentare uno dei miei progetti d’architettura -una galleria non è luogo adatto a questo- ma ho pensato a una pièce che giocasse con lo spazio e che avesse una vita propria. Ecco come è nata Homéostasie, un’opera che interpreta ciò che per me è l’equilibrio dinamico. Si può dire che con questo pezzo ho cercato di passare dall’altra parte dello specchio, di cambiare punto di vista, di fuggire il campo stretto dell’architettura e dello spazio architettonico.

Crede che questa interazione tra arti possa esserci solo quando due discipline si “scontrano”, in questo caso per la destinazione d’uso a museo, o anche con semplici interventi di architettura?
Arte e architettura possono incontrarsi in ogni istante. E non c’è solo il museo, c’è anche lo spazio pubblico, gli ambiti della vita privata. Il museo non è comunque l’unico luogo d’interazione.

A questo proposito, considerato il suo interesse crescente per la materia, avrà un’attenzione particolare per il design e gli arredi dell’avventura romana? Quali saranno gli spazi più caratterizzati? La biblioteca? Il ristorante?
Non vi saranno zone specificatamente dedicate a interventi di design. Comunque ho disegnato “oggetti” per gli spazi del ristorante, della libreria, della sala di lettura, della sala conferenze, del bar…

I segni distintivi, che connotano le sue architetture, sono identificabili anche nel progetto museale? Ad esempio, l’uso del colore rosso, presente anche nel caso romano, ha per lei un significato particolare?
Il rosso è arrivato poco a poco dopo molti anni. All’inizio l’ho semplicemente fatto, non gli ho dato un senso particolare. In realtà ogni volta che partecipo a una conferenza mi viene posta sempre questa domanda. E allora rispondo che dapprincipio il rosso era nato per rendere un forte contrasto con il nero. Di seguito è stato pensato come rosso-sangue e dunque rosso-vita.

Il museo di Roma è stato definito come un progetto alla ricerca di un equilibrio dinamico, che è di per sé una contraddizione in termini. È alla ricerca di un punto di rottura che generi un’instabilità creativa riconducibile all’arte contemporanea?
L’equilibrio dinamico non è una contraddizione in termini, la prova è la definizione di Homeostasie, ovvero il termine che definisce nelle scienze l’equilibrio dinamico stesso. Si tratta dell’equilibrio che sta giusto al limite della rottura; quell’equilibrio che un nonnulla può mettere in movimento. Quell’equilibro nel quale forze apparentemente contraddittorie trovano un punto di stabilità a dispetto del movimento tutt’intorno.

In una sua precedente intervista, ha definito Roma come la città ideale per la nuova architettura, la capitale secondo lei è effettivamente pronta ad accogliere un progetto come il suo, definito di “rottura con il passato”?
Ho detto che il contesto romano, statico da tanto tempo, sarebbe un ambito ideale per sperimentare sull’architettura. Ho costatato che se un territorio è fermo da molto e si rimette in moto, va molto più spedito di un territorio che in moto c’è sempre stato. Roma ha cominciato a mettersi in moto. E lo deve fare ben forte nel futuro se non vuole addormentarsi di nuovo.

In questo progetto, oltre al classico, si è dovuta rapportare con un contesto anche storico, qual è stata la strategia?

Il solo elemento importante di riflessione concettuale rispetto al progetto alle sue origini è stato l’obbligo di mantenere le facciate. E poi c’è stata questa necessità di rottura. Per far sì che il visitatore entrasse davvero in un altro universo. Per vedere l’arte contemporanea in una città dove non è visibile a causa delle tante preesistenze.

Il titolo del concorso di Roma era “territori sensuali”, come se l’ipotetico visitatore del museo dovesse compiere un percorso attraverso il quale si rapporta a nuove sensazioni che scaturiscono dall’interazione con l’edificio. Quanto conta la percezione dello spazio e che rapporto si crea in un museo tra opere d’arte e architettura?
Il titolo faceva riferimento al fatto che aprirsi all’arte contemporanea significa mettere in gioco tutti i nostri sensi. E l’architettura è il territorio di questi sensi. Alla stessa maniera il disequilibrio legato alle pendenze, le texture di materiali cangianti sotto ai piedi del visitatore, i punti di vista variabili (contro sole, in obliquo, davanti alle vetrate…), tutto ciò mette in campo il rapporto diretto con l’opera e permette di creare dei rapporti successivi legati alla scoperta. È un po’ come in uno spazio barocco con molteplici punti di fuga.

Vi sono stati dei brutti momenti in quest’avventura?

Il cantiere non ha passato dei momenti brutti. Comunque la gestione dei tempi è stata complicata. Ho progressivamente capito che la cosa sarebbe stata lunga. Perché se tutti dicono che sette anni di cantiere in Italia sono pochi, posso garantire che, se confrontati ad altri paesi, sono decisamente tanti.

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Odile Decq co-curatrice de La città che sale al Macro Future

a cura di valia bariello

[exibart]

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  • L'opera di Gregor Schneider per la mostra la città che sale mi propone una domanda angosciosa: in che razza di perverso circuito mentale possono nascere brutture come queste? Ma l'arte che c'entra, l'arte metafora della realtà e comunicazione culturale...Da quale equivoco bisogna partire per apprezzare queste cose? Che sia un equivoco verrà chiaro molto presto, molto presto. Non si può continuare così.

  • a me pare che la comprensione di questi discorsi rimane sempre all'interno di un circuito ristretto di intellettuali. Non so se questo tipo di comunicazione possa ritenersi compatibile con una autentica comunicazione culturale, a me non pare, anzi sospetto che alla base ci sia una sorta di mistificazione... che naturalmente unisce degli interessi particolari. Odile Decq, capita a Roma e incide sul suo tessuto edilizio. Ma non si potevano coinvolgere le risorse culturali della città? Le generazioni hanno il diritto di marcare la città con la loro testimonianza, ma testimonianze di questo tipo, mediate fuori dallo spirito identificativo della città a me sembrano del tutto illegittime. Per favore poi parliamo semplice e lasciamo stare l'equilibrio dinamico... non se n'è può. Dico di più, la vostra è una comunicazione aristocratica e affatto democratica, che esclude la gente comune. Non ci si può adattare a questo.

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