Categorie: Personaggi

Glas, per Jacques Derrida

di - 13 Ottobre 2004

Negli Usa n’era stata fatta una raccolta. Con gli addii di Jacques Derrida (El Biar, Algeri, 1930 – Paris 2004). Ne aveva scritti molti. Non aveva mai tradito la propria attitudine al rispetto del defunto, cioè al non scrivere lusinghe. Per esempio ricordando Paul de Man, che in gioventù aveva firmato articoli a dir poco ambigui su una rivista collaborazionista. Ma l’addio più commovente era stato “inviato” a Levinas -il filosofo lituano aveva parlato di una prossimità “chiasmatica” con Derrida-, poi fra gli altri a Deleuze, Bourdieu, Marin… Senza l’assistenza del padre, i loro scritti avrebbero continuato a tessere le proprie trame, come Derrida aveva insegnato nella Farmacia di Platone (1968-69).
D’altronde, Derrida ha imbastito il suo testo cinquantennale in un continuo confronto con l’evento della morte. A partire almeno da La voce e il fenomeno (1967), quando in esergo citava Valdemar: “Dormivo, e adesso, adesso sono morto”. Un discorso che si è svolto sul filo labirintico e indecidibile di tutti i suoi testi, dal “rintocco funebre” in Glas (1974) al sacrificio d’Abramo in Donner la mort (1999), senza dimenticare la riflessione spietata sull’Instant de ma mort (1994) di Blanchot (Demeure, 1998).
Ancorato paradossalmente all’indecidibilità obversa dell’era tele-visiva, il testo derridiano metteva a confronto morte e fantasmi. Lo spettro di Marx, per esempio, aveva spesso fatto capolino, per scontrarsi infine con quello del padre di Amleto (Spettri di Marx, 1993). E non è un caso se ne era scaturito uno spettacolo video-teatrale. Apparizioni fantasmatiche, quelle di Derrida, che negli anni si erano moltiplicate, per esempio nel film Ghost Dance (1983) di Ken McMullen, dove Derrida parlava proprio di lutto, cinema e fantasmi.

Tutte queste morti erano dunque hantées dai (propri) fantasmi. E in particolare quella dell’arte e dell’architettura –basti ricordare la collaborazione con Bernard Tschumi e Peter Eisenman (Choral Works, 1991)-, incarnata innanzitutto dalla facoltà kantiana del giudizio, ossessionata dalla ragion pura, dal cadre e dal vomito, in un testo che nessuno in Italia vuole tradurre, Economimesis (1975). Un rapporto, quello con le arti visive, che si dipana anch’esso sul filo degli anni, non tanto in testi “corposi” (termine che risuona con il quasi-omofono tedesco, il cadavere), piuttosto in brevi cenni a François Loubrieu (che nel 1979, al Pompidou, aveva “illustrato” gli Sproni, 1978, di Derrida) oppure in un colloquio con Carlo Sini, Il giusto senso dell’anacronia (1998), con un letterale sotto-testo costituito dalle opere dello Studio Azzurro.
Mi si permetterà un ricordo personale. Avevo conosciuto Derrida all’Università Paris8. Preparavo una sua bibliografia per l’Università del Minnesota e una tesi su Francis Bacon, dal titolo astruso di Figure(s) du (non-)présentable in forma di ipertesto in CD-Rom. Fui invitato alle lezioni tenute all’EHESS parigina. Leggeva o, meglio, jouait i testi che aveva sott’occhio: un reading. In quel 1999-2000 aveva improvvisamente deciso di cambiare titolo del corso. Per incentrarlo sulla pena di morte, perché era arrivata la notizia dell’imminente esecuzione di Mumia Abu-Jamal, del quale aveva scritto la prefazione all’edizione francese di In diretta dal braccio della morte (1996). Lezioni che non possono essere facilmente dimenticate. Come indimenticabile fu la presentazione del libro Tourner les mots (2000) e del film che lo accompagnava, D’ailleurs Derrida, diretto da Safaa Fathy, al Salone del Libro locale e poi in un cinema come solo a Parigi ne esistono. Anche quello, un testo che non è stato tradotto. Anche quello, un film che in Italia non è stato distribuito. Come avverrà forse per Derrida, the Movie, diretto da Kirby Dick ed Amy Ziering Kofman con le musiche di Ryuichi Sakamoto, la cui edizione in dvd è di imminentissima uscita.
Il modo più corretto che si possa adottare per rendergli omaggio sarà allora certo tradurlo, ma soprattutto continuare a tessere quel testo, senza presunti accreditamenti o filiazioni ortodosse. Il lavoro del lutto è infinito e (non) si conclude con un secondo assassinio. Ricordo ancora che a quel seminario furono presentati due lavori di studenti. Il primo attaccava duramente Derrida e difendeva Foucault, nella rievocazione d’un dibattito iniziato quarant’anni prima. Il secondo esaltava il Derrida “critico letterario”, se non ricordo male in riferimento a Schiller. Derrida fece pubblicare il primo articolo.
Ma ci sarà bisogno di Donner le temps, com’era intitolato uno straordinario testo del 1991. Era il primo volume. Non vedremo mai il secondo.

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Derrida the Movie

marco enrico giacomelli

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  • caro update,
    se la tua è una richiesta di sostegno bibliografico, c'è un bel testo breve di dario giugliano, "derrida-saussure" (bulzoni, roma 1994).
    ciao
    m.e.g.

  • se vuoi tradurre economimesis ti fornisco lo spazio e l'editore (giochino enigmistico, il libro sopra citato senza l'economia). Ovviamente, per quel che riguarda il lato economico, si tratterebbe di qualcosa ch'esulerebbe dal circolo chiuso dell'oikos.
    Fammi sapere. Un tiepido ammiratore delle tue traduzioni per il uebdeles.

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