Prima delle festività natalizie è morto, all’età di 73 anni, Tom Wesselmann. Alcuni avranno dedicato un pensiero a questo signore che ha impegnato quattro decenni della sua esistenza a dipingere donne nude e megacartelloni simulacrali; noi vorremmo soffermarci per un attimo sul suo ruolo e sulla posizione che egli ha ricoperto all’interno della Pop Art e dell’arte del XX secolo in generale.
Mentre Warhol, Lichtenstein, Rosenquist e gli altri stavano fondando le nuove basi di un’arte pienamente mediatica – completata parallelamente dalle istanze minimal -, Wesselmann si è incaricato di fornire un possibile ed efficace collegamento con la storia dell’arte, non solo contemporanea (intesa anche come lavoro sui modelli e sui topoi). La sua è perciò una figura di transizione, nel senso migliore del termine. Transizione da un secolo ad un altro, da un’epoca all’altra. Il nudo e la natura morta, dopo essere stati sottoposti a decostruzione e astrazione all’interno del sistema artistico, divengono essi stessi puri segni pubblicitari e comunicativi: diventano popolari, quasi un secolo dopo la teoria e la pratica di Gustave Courbet.
Che cosa significa davvero pop? L’impressione è che questo concetto – alla definizione del quale Wesselmann ha contribuito in maniera indubbiamente interessante e personale – sia destinato ad essere riesaminato e riscoperto, al di là delle banalizzazioni e delle riduzioni a cui è stato sottoposto nell’ultimo quarto di secolo.
Nonostante dunque l’inevitabile seduzione dell’istantaneità ci consegni l’immagine di un artista statico, basta osservare alcuni punti dell’attività di Wesselmann per rendersi conto della ricchezza delle sue proposizioni (qualcuno dirà: “ma gli artisti pop non facevano proposizioni, quelli erano i minimal…”: sbagliato). Negli studi per i suoi dipinti, a partire dalla fine degli anni Sessanta, viene fuori una strana forma di elegante rozzezza, molto lontana dalle solite campiture monocrome e vicina invece alle immagini della controcultura caratteristiche dello stesso periodo. sprezzatura pop, probabilmente.
Inoltre, Wesselmann ha fortemente contribuito all’affermazione dell’americanità nell’arte contemporanea. In questo senso, il 1964 è il momento-chiave: Bob Rauschenberg, il più digeribile dei proto-pop, si aggiudica la Biennale di Venezia; Roberto Longhi, il campione della storia dell’arte, definisce sprezzantemente “prodotti” le opere dei nuovi americani, cogliendo al tempo stesso perfettamente l’entità e la qualità della frattura epocale che avviene sotto i suoi occhi, nello stesso anno in cui muore l’ultimo degli Umanisti, Giorgio Morandi.
Esattamente quarant’anni dopo, il cerchio si chiude, e ci lascia definitivamente il Matisse del secondo Novecento.
christian caliandro
[exibart]
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