Categorie: Personaggi

L’intervista/ Alessandro Carboni

di - 12 Settembre 2018
Osserva, cattura, ripeti, componi sono le quattro indicazioni che Alessandro Carboni, artista interdisciplinare, performer e ricercatore, usa nel suo metodo Embodied Map Tools. Lo spazio urbano colto nel suo divenire. Corpi che diventano mappe, una cartografia che da spazio alla memoria, al tempo e all’esperienza.
Unleashing ghosts for urban darkness è il titolo del progetto che Alessandro Carboni ha realizzato all’interno di “Right to the city”, prima tappa del progetto europeo “Atlas of Transissions Biennale”, del quale abbiamo parlato qui (mettere link articolo che sarà già uscito). Un laboratorio che ha visto per la prima volta la traduzione del toolkit che trasmette il metodo elaborato dal performer in 8 lingue e che si è concluso con una performance presentata a Bologna.
Un altro approccio alla narrazione della città un altro tentativo di esaurimento di luoghi, per dirla con il titolo dell’installazione presentata da Zimmerfrei nell’ambito dello stesso progetto, far emergere nuove voci e nuove cartografie non è forse l’unico modo per iniziare a immaginare nuovi tipi di città?
Del suo metodo e dell’esperienza bolognese ci ha parlato Alessandro Carboni.
Che cos’è per te una mappa?
«Dipende da che punto di vista guardiamo la mappa. Se prendiamo una mappa per quello che è convenzionalmente la possiamo definire come la proiezione di uno spazio in una superficie bidimensionale. Per come la penso io la mappa convenzionale non rappresenta, in realtà, la complessità dello spazio urbano. La complessità di questo spazio è data dal fatto che esiste la dimensione tempo che la mappa convenzionale non rappresenta. Nella mia ricerca la mappa è intesa in realtà come mappa corporale che intende mettere in crisi quella tradizionale inserendo la dimensione tempo, cercando di osservare lo spazio urbano nel suo costante e continuo cambiamento. Nella mia pratica la mappa viene incorporata dal performer, per questo parlo di mappa corporale, c’è un processo di incorporamento di questa complessità attraverso un processo di mappatura. Il sistema si chiama Embodied Map Tools (MT Tools) e mi da la possibilità di catturare i frammenti, gli elementi, le situazioni, gli accadimenti, le geometrie e temporalità dello spazio urbano e farli propri attraverso il corpo che, in qualche modo, diventa lo strumento di cattura, quindi lo strumento cartografico e allo stesso tempo lo strumento di rappresentazione diventando, così, anche la mappa. Questo metodo EM Tools mi da la possibilità non solo di mappare lo spazio in divenire ma, essendo il corpo esso stesso anche mappa, di performare questi dati spaziali che sono stati raccolti».
Alessandro Carboni, foto di Enrico De Stavola
Parto dal titolo che aveva l’intervento a Bologna: Unleashing ghosts for urban darkness (Scatenare i fantasmi dall’oscurità urbana). Il termine scatenamento mi fa venire in mente una scintilla un innesco: cosa succede al performer che attraversa quello spazio? Cosa succede allo spazio che viene attraversato?
«Il titolo nasce dall’idea che l’osservazione dello spazio urbano ha diversi livelli e priorità. Il metodo che ho sviluppato chiede al performer non di guardare al centro ma di concentrarsi sulla periferia della nostra attenzione analizzando, per esempio, non gli oggetti per quello che sono, ma per quello che hanno. Si chiede quindi al performer di esplorare le proprietà di quell’oggetto ampliando le possibilità del corpo di interagire con l’oggetto stesso. Queste proprietà sono come dei fantasmi, delle presenze che non si vedono ma ci sono: l’idea metaforica è quella di allenare lo sguardo a vedere ciò che è invisibile. Si crea, così, un parallelo tra le proprietà nascoste dei soggetti scelti e le possibilità del corpo, che sono anche esse nascoste. Come posso trovare la rotondità di un albero usando il mio corpo? Attraverso una serie di domande che il performer pone nella pratica di mappatura si esplorano queste presenze fantasmatiche, il suo compito è quello di esplorarle prima osservando l’evento che ha di fronte e, in un secondo momento, trovando le possibilità di farlo con il corpo. Quindi l’idea è quella di liberare queste presenze dall’oscurità urbana e incorporarla, c’è una relazione continua, quindi, tra lo svelare sia le possibilità del performer che dell’oggetto».
Alessandro Carboni, foto di Enrico De Stavola
Quando contano le storie personali e la memoria dei luoghi in questo processo?
«Le storie personali contano nella modalità in cui il vedere è associato all’esperienza. Una cosa mi colpisce perché ho un’esperienza di quell’oggetto, in questo metodo di lavoro si dice sempre che il performer è in attesa di essere colpito dagli oggetti, è in qualche modo chiamato dagli oggetti a interagire con essi. Questa chiamata, che a volte avviene in pochi istanti, è legata alla relazione con la memoria e alla storia personale di chi applica il metodo. EM Tools è una piattaforma libera che il performer fa propria e in questo senso l’esperienza, come mi piace definirla, esperienza dei luoghi e della vita si trasforma in soggettività. Niente è giusto e niente è sbagliato c’è solo bisogno di coerenza con il metodo».
Puoi parlarmi un po’ dell’esperienza bolognese?
«È stata la prima esperienza dell’applicazione di una nuova versione del metodo. Abbiamo sviluppato a partire dal sistema coreografico EM Tools una nuova versione in 8 lingue. Per l’occasione di Bologna abbiamo stampato la guida, che già esisteva in italiano, in 8 lingue diverse, perché mi interessava pensare al metodo come un territorio comune in cui gli stessi principi venissero tradotti in lingue diverse per aiutare ad avere un accesso più preciso a chi non parla bene l’italiano. I partecipanti sono stati 17 di diverse provenienze geografiche: Cina, Romania, Italia, Africa, India, Brasile, lingue e storie completamente diverse. Questo ci ha dato modo di avere anche diversi approcci e esperienze dello spazio urbano. Si è creato un lavoro che potrei definire intraculturale. Attraverso il metodo abbiamo approfondito le interferenze, dissonanze e discontinuità dello spazio urbano da punti di vista diversi. Il lavoro è stato di sei giorni più due giorni di prova ne è nata una performance che abbiamo presentato sia nello spazio che in un ambiente chiuso».
Paola Granato

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