Categorie: Personaggi

L’Intervista/Andrea Mastrovito

di - 13 Marzo 2015
Andrea Mastrovito è entrato nella casa-museo Andersen e ha “conosciuto” la famiglia che lo abitava, identificandosi con uno in particolare. Da qui ha costruito la sua mostra (a cura di marco Bazzini e Eugenio Viola), tra utopie, disegni e altre storie. Ci racconta tutto in questa intervista.
Intanto la prima domanda banale: come ti sei trovato a lavorare in un luogo così particolare come il villino Andersen? Io lo trovo un posto affascinante ma allo stesso tempo angosciante. Avevi già idea di cosa avresti fatto all’interno dello spazio oppure ti sei lasciato attrarre dalla storia degli Andersen già prima di entrarvi?
«In realtà un paio d’anni fa, credo fosse il 2013, parlando con la curatrice del Drawing Center a New York, Joanna Kleinberg Romanow, mi venne in mente un lavoro particolare: ridisegnare completamente una galleria o un museo, foglio su foglio. Un lavoro che riprendeva la galleria fotocopiata di Millionnaire del 2007, e che la rendesse al contempo più preziosa e più calda. Così quando mi venne proposto di intervenire all’interno di Casa Andersen, subito pensai di ridisegnarla tutta su migliaia di fogli per schizzi. O almeno, questa fu l’idea fino a quando non visitai effettivamente lo spazio.
Apriti cielo: provai ad immaginarmelo ricoperto di fogli e foglietti, e chiaramente non funzionava. È uno spazio troppo permeato dal vissuto – affascinante ed angosciante, come dici tu – della famiglia Andersen, per poterlo nascondere o ridisegnare. Bisognava affrontarlo a viso scoperto, visto che tra l’altro l’aveva già affrontato a viso coperto (con le sue maschere) Luigi Ontani quello stesso anno (inizio 2013 se non ricordo male) ed aveva fatto un lavoro davvero egregio. Così pensai che l’unica soluzione papabile fosse quella che avevo già adottato, parzialmente, in un’altra Casa-Museo: Casa Testori a Novate Milanese».

Di che si tratta?
«Far rivivere la famiglia Andersen all’interno delle stanze, il cui vuoto è enormemente amplificato dalla grandezza (e follia) dei sogni di Hendrik, l’artista cui è intitolato il villino. Le stanze rosa, le decorazioni, i puttini, gli affreschi, tutto ciò cercava qualcosa, anzi qualcuno, qualcuno che desse loro nuova vita. Inizialmente pensai ad una serie di videoanimazioni incrociate che dialogassero da una stanza all’altra. Ma rimaneva qualcosa di troppo etereo, il contrasto con le grandi sale sottostanti, con sculture e disegni, era troppo forte. Per questo pensai ai cinque gruppi (uno per ogni stanza) di quattro sculture, in modo che i quattro membri originari della famiglia potessero incontrarsi nuovamente, coi loro sogni e coi loro drammi (letteralmente disegnati addosso), e dialogare da una stanza all’altra, laddove lo spazio misura il tempo e viceversa. Man mano che si passa dalla prima all’ultima stanza, le statue crollano seguendo la sequenza delle morti dei vari membri della famiglia, in un dialogo muto che conduce al sonno dei quattro e dei loro sogni. Il tutto in un’alternanza continua con i sogni utopici e rivoluzionari che hanno caratterizzato l’età moderna, dalla rivoluzione francese al comunismo dal fascismo alla primavera araba».

Credo che per un artista l’idea che ha in mente spesso cozzi poi con la realtà che si trova davanti, soprattutto per un lavoro site specific. L’Andersen, come abbiamo detto entrambi, è un luogo permeato dai componenti della famiglia, dai lavori, insomma è difficile per un artista. Ma mi sembra che tu abbia colto il modo migliore per rendere il museo un luogo di vita per i tuoi lavori. Parli di cinque gruppi di quattro sculture, che rappresentano i quattro membri originari della famiglia. C’è qualcuno di loro che più degli altri ti ha affascinato con la sua storia, che hai sentito in qualche modo vicino?
«Beh, non poteva che essere Andreas, dato il nome e dato anche il fatto che era un pittore (niente male, senz’altro più dotato rispetto al fratello Hendrik). Certo, poi è quello che muore subito, poche settimane dopo le nozze con Olivia Cushing (e qui mi tocco). Ma si può dire che da lui nasca tutto: in nome suo, il fratello e la moglie Olivia cominciano a pensare all’utopia del Centro Mondiale di Comunicazione e la sua assensa/presenza permea non solo la loro storia famigliare ma ancora oggi è avvertibile tra le stanze della casa. Diciamo che avendo un senso piuttosto tragico del vivere, non potevo che ritrovarmi in Andreas, il cui “sacrificio” dà il là al sogno degli Andersen. È una figura che ricorda molto da vicino i mediatori evanescenti di zizek, figure fondamentali x lo sviluppo di ogni nuova concezione/rivoluzione ma che rimangono nell’ombra, presenti ed assenti al contempo».

Hai lavorato con la stessa (più o meno) materia di Andersen, o comunque buona parte della mostra è realizzata da sculture. Non ti è venuto in mente di allestirla al piano terra dove sono conservate moltissime sculture di Hendrik Andersen?
«Sicuramente la stanza di sotto, con le grandi sculture, è stata l’ispirazione primaria per quanto ho poi realizzato al piano di sopra. In realtà, se avessi potuto (ma era chiaramente impossibile) avrei voluto disegnare direttamente sulle sculture al piano terra, quasi traslando una stanza nell’altra. E avrei voluto ridisegnare la città ideale, i cui studi architettonici sono esposti nello studio che si trova nell’ala destra del villino, su tutte le sculture nella stanza di sinistra, ingrandendola fino a coprirle tutte, e dando una compiutezza finale a quel senso tragico e quasi inutile del vivere che permea la casa. Ma come puoi immaginare non si può pensare di arrivare e distruggere tutto (a meno che tu non sia un tifoso del Feyenoord o un inetto politicante). Così ho rimesso in scena la loro vita, per poterla ri-distruggere, in quella sorta di mise en abime della mise en abime che spesso caratterizza il mio lavoro. Se riesci a convincerli tu a lasciarmi disegnare sulle statue, corro lì con una squadra di assistenti!!!!».
Sabrina Vedovotto

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