Categorie: Personaggi

L’intervista/Maria Cristina Finucci | L’isola che c’è. Ma non si vede

di - 19 Aprile 2013
La prima tappa è stata pochi giorni fa, l’11 aprile alla Maison de l’Unesco a Parigi. La prima volta che il progetto Garbage Patch State, ideato e creato da Maria Cristina Finucci, artista italiana che nasce in realtà come architetto, e forma la sua carriera in giro per il mondo, da New York a Parigi, da Bruxelles a Mosca. E da Parigi inizia un tour che porterà la grande installazione, in apparenza facile e comprensibile, ma dai risvolti molto politici, polemici e poetici, nella forma e nell’estetica, anche in piazza Boetti, davanti al MAXXI, a settembre e, prima, a Venezia, dove la Finucci avrà il “Padiglione” del Garbage all’Università Cà Foscari.
Un intervento patrocinato dal Ministero italiano dell’Ambiente, attraverso il quale l’arte vuole contribuire alla salvezza del pianeta, sollevando e parlando del tema del mare di plastica, quell’immensa “macchia” che si è radunata nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, trasportata dalla forza centrifuga delle correnti, invisibile non solo perché in una zona remota, ma anche per il suo galleggiare appena sotto il pelo dell’acqua (ragione per cui qualcuno sostiene che si tratti di pura invenzione), caratteristica doppiamente subdola di una modernità nata con la celluloide e proseguita con la bachelite, il nylon, il pvc e il polietilene, giusto per citare i materiali più comuni. Che puntualmente sono stati dispersi, ingoiati dal mare. Che non è immenso, e che nemmeno è riuscito a corrodere, facendo sparire, questa immensità industriale e sintomatica dell’incuria umana. Ma lasciamo che a raccontare questo viaggio al limite del distopico, inquietante quanto affascinante, nel senso più lato del termine, sia proprio l’artista.
Partiamo dal principio: quando ha scoperto l’isola di plastica nel Pacifico e che cosa ha pensato? Com’è nata poi l’idea di occuparsi materialmente della questione?
«Qualche anno fa, su un settimanale, lessi la notizia dell’esistenza del Garbage Patch, un’isola grande quanto il Texas e profonda trenta metri, composta da detriti plastici, che galleggiava in mezzo all’Oceano Pacifico. Ne rimasi profondamente colpita e decisi subito che avrei voluto vederla da vicino, ci dovevo andare. Quando poi iniziai la mia ricerca mi accorsi che la verità non era precisamente quella e che il problema era ancor più grave, in virtù del fatto che in realtà non fosse così appariscente. Visto che per ora non si conosce un rimedio per bonificare gli oceani, l’unica cosa da fare è evitare di far crescere queste “isole”. Ma come fare se nessuno conosceva precisamente il problema? Perché un disastro di quelle dimensioni era quasi sconosciuto? Io stessa, tra le svariate informazioni che trovano in rete, non ero ancora riuscita a farmi un’idea precisa, eppure le “isole”, che poi avevo in seguito scoperto essere cinque, erano veramente estese più del Texas ed erano terra di nessuno! Mi è venuta allora l’idea di superare questa “rimozione” collettiva dell’umanità attraverso il riconoscimento e la formazione di uno Stato, un’entità tangibile che sintetizzasse il problema con una sola immagine. Viviamo in un’epoca in cui a causa della sovrabbondanza di informazioni, la sintesi è una delle cose di cui abbiamo maggiormente bisogno. A causa di questo cambiamento nell’assetto geologico bisognava rivedere i confini geografici del Pianeta, e ho iniziato a costruire attraverso immagini la nuova geografia della Terra. Ho creato poi i simboli tramite i quali un Paese indipendente proclama la propria identità, in cui riflette la sua ascendenza, il suo pensiero e la sua cultura; sono nate quindi la bandiera e l’emblema. Ma non bastava. Era necessario creare, come sempre nella storia di ogni Paese, il mito fondante, una storia popolare che, come forza attiva da costruirsi nel tempo, descrivesse in termini semplici, attraverso personaggi irreali una situazione invece complessa. Alla creazione di questo mito hanno contribuito gli studenti del programma “Competenze per la Sostenibilità” dell’università di Cà Foscari. Subito dopo il riconoscimento -“ufficiale” e simbolico, dello Stato Federale del Garbage Patch, l’11 Aprile a Parigi, è stato messo in rete il sito garbagepatchstate.org, il portale con il quale il mito sarà diffuso e alimentato dai contributi di chiunque vorrà intervenire attraverso il blog».
700mila chilometri quadrati stimati di “plastic waste” nell’oceano. Un “Paese” invisibile da cui lo scrittore Juan Abreu aveva preso spunto per il suo romanzo “Garbageland”. Sembrerebbe molto facile raccontare la vicenda dal punto di vista prettamente ambientale, ma in campo politico? Questo “Garbage Patch State”, grande come il Texas o forse di più, fa parte di una responsabilità precisa, o semplicemente di una mancata percezione del rischio?
«Se vogliamo addentrarci nel campo della letteratura devo ammettere che lo scrittore che più mi ha fatto riflettere è stato Stanislaw Lem, con l’idea dei pianeti tecnologicamente avanzati che mandano in orbita i loro rifiuti. Per tornare invece alla domanda: credo che il problema sia scappato di mano all’umanità, non siamo riusciti a gestirlo. È stata troppa l’euforica facilità  dell’uso della plastica, ha annebbiato il nostro senso della misura».
Nella plastica mangiamo, beviamo, la indossiamo, è un materiale che fa parte delle nostre azioni quotidiane. C’è qualcosa che ha dell’incredibile nel “reverse” di questo miracolo, che in qualche modo ci ha reso tutti più ricchi, e che ora strangola il pianeta. Cosa c’è di antropologico e cosa invece di più prettamente legato alla denuncia in “Garbage Patch State”?
«Il mio intento non è quello di demonizzare la plastica, anche perché sarebbe velleitario volervi rinunciare. La quasi illimitata e immediata disponibilità ad ottenere un oggetto, il relativo sforzo nel procurarselo, il suo costo quasi irrisorio, in contrapposizione con la fatica che dovevano fare i nostri antenati è stata come la liberazione da una schiavitù. Per contro tali oggetti, per dirla con Benjamin, hanno perso totalmente la loro aura, sono divenuti banali e quindi trascurabili».
I coniugi Orta, qualche tempo fa, mettevano a disposizione passaporti per l’Antartide, terreno vergine dal quale ricostruire un approccio civico al pianeta. E per “Garbageland” c’è un “passaporto” che possa utopicamente far “funzionare” il disastro che si è creato?
«Devo confessare che è stata una delle prime idee che ho avuto e che ho in programma di sviluppare. La mia opera, che ho chiamato Wasteland, infatti trae nutrimento dall’interazione con le persone e dai flussi di energia che esse generano, il fatto di lavorare con i giovani è per me importantissimo. Anche l’installazione nel cortile del MAXXI sarà frutto dell’interazione con gli studenti del Master in Exibit and Public Design dell’università La Sapienza, tramite il dipartimento di educazione del Museo. Seguirà poi un lavoro con gli studenti di Roma Tre e con altri ancora, ma non voglio fare anticipazioni».
PlasticParadise mette in scena, con un taglio documentaristico, il fenomeno del “vortice di plastica” nel suo punto massimo, nell’atollo di Midway, a quattro ore di volo verso nord-ovest da Honolulu. Qui il paesaggio paradisiaco tanto caro all’Occidente si fonde con l’orrore dell’abbandono di tonnellate di plastica che stanno distruggendo qualcosa come 260 specie viventi. Che dignità avrà lo Stato di Garbageland alla Maison Unesco, a Cà Foscari e al MAXXI?
«Avrà la dignità di uno Stato che pezzo per pezzo è formato da qualcosa che ognuno di noi ha abbandonato come oggetto senza valore. Una entità che ci appartiene e allo stesso tempo ci minaccia, come un luogo recondito della nostra coscienza che riaffiora».
È essenziale accollarsi la consapevolezza di questo nuovo mondo, ma come sarà possibile “viverlo”?
«Laddove i governi spendono ogni anno molti soldi per ripulire le coste il miglioramento si vede. Dobbiamo però tutti contribuire ad una inversione di rotta, è ancora possibile. La maggior parte dei detriti che compongono il Garbage Patch proviene da oggetti usa e getta, bottiglie, bicchieri, contenitori. Infatti normalmente non si getta un aspirapolvere o un tavolino per strada, mentre le bottiglie, tappi e sacchetti vari non si contano. Tutto questo deve cambiare».

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  • A proposito di Pacific Trash Vortex, volevo segnalarvi la piattaforma artistica EcoArt Project (www.ecoartproject.org) che dal 2009 si occupa di tematiche ambientali e che da pochi giorni ha lanciato PLASTIC VORTEX il CONCORSO FOTO E VIDEO, rivolto a studenti delle scuole superiori http://www.plasticvortex.org
    Il progetto nazionale è sviluppato con il supporto del Ministero dell'Istruzione.

  • Dirò una cosa che non piacerà a nessuno ma comprenderei nel costo di vendita di un prodotto anche il costo del suo smaltimento, e vorrei usare le somme per il recupero; diminuirebbero i beni di consumo prodotti ed aumenterebbe il lavoro per lo smaltimento. La vita troppo facile ci ha illuso e abbiamo perso il contatto con le leggi della natura e con noi stessi.

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